L'Osservatore Romano - 15 aprile 2015

Quella scala silenziosa

Il Compianto sul Cristo morto del Beato Angelico esposto a Torino.

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La scena del Compianto sul Cristo morto, tempera su tavola dipinta dal Beato Angelico tra il 1436 e il 1441, viene esposta al Museo Diocesano di Torino dal 16 aprile al 30 giugno, in corrispondenza con l’Ostensione della Sacra Sindone. La scena è dominata da una grande croce ben levigata che pare appena uscita dalla bottega di un falegname fiorentino. Sotto questo albero spoglio, una forca trasformata da simbolo d’infamia in ancora di salvezza, un popolo di santi e beati, con grande prevalenza femminile, si raccoglie a pregare davanti al Figlio di Dio deposto dalla croce. Quel Dio che prima del peccato comunicava con Adamo ed Eva sotto l’Albero della conoscenza del Bene e del Male.

Dopo la disobbedienza quel dialogo si è interrotto. E oggi si ricompone davanti al Figlio di Dio deposto che ha dato tutto per noi fino alla morte. Due icone dunque dominano il pellegrinaggio torinese. Il misterioso volto dell’Uomo della Sindone, prima di tutto. E poi il Corpo luminosissimo e il Volto silenzioso e ricco di fede del Cristo deposto dipinto dall’Angelico. La comunione con Dio si è ricomposta. Volto e corpo “dato per tutti”, oggi come ieri. Offerto anche ai condannati a morte che nel Quattrocento uscivano dalle mura di Firenze all’alba e, dopo aver ricevuto l‘Eucarestia, venivano accompagnati al patibolo. Il Compianto è stato infatti dipinto dall’Angelico su incarico della Compagnia della Santa Croce, una delle tante confraternite laicali che accompagnavano i condannati a morte con il conforto dei sacramenti e della carità cristiana. E questa tavola dell’Angelico era l’ultima immagine che essi guardavano prima del supplizio.

Dietro la croce, appoggiata al braccio orizzontale (patibulum) Angelico dipinge in ombra e con precisione una scala e, dietro di essa, lo scorcio delle mura di Firenze con la porta della Giustizia da cui uscivano appunto i condannati. La scala è stata lasciata lì dal pittore, silenziosa, a ricordare il momento della Deposizione, quando Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo calarono a terra il corpo inerte di Gesù. Ai lati del braccio orizzontale i chiodi sono stati meticolosamente “rimessi al loro posto”, esposti, mentre da essi sgorgano piccoli rivoli di sangue vivo sul legno. L’insieme fa pensare al clima metafisico della pittura di certi autori moderni come Giorgio De Chirico, per esempio le sue Piazze d’Italia. Ma soprattutto ai silenzi della grande pittura di Piero della Francesca, che una decina d’anni dopo il Compianto dell’Angelico dipingerà ad Arezzo le sue Storie della Vera Croce, utilizzando una tipologia di Croce simile a questa dell’Angelico. L’insieme di croce, chiodi, scala e fondo di mura cittadine infine costituisce un perfetto still-life religioso, in cui il pittore ci invita a contemplare gli “strumenti della Passione”.

Rispetto alla drammaticità della Deposizione dipinta qualche anno prima dallo stesso Angelico per la chiesa della Trinità, nel suo Compianto esposto a Torino il dramma sacro (affrontato con toni più accesi da pittori come Giotto e Duccio da Buoninsegna) trova qui un suo equilibrio emotivo, si stempera e si trasforma in una sacra rappresentazione dominata dall’immobilità e dal silenzio dei presenti che non gridano ma pregano con le mani aperte, chiuse sul petto, oppure unite in preghiera.

Il tutto trasfigurato nella luce del Tabor. Forse nessun altro artista al pari dell’Angelico ha osato tanto: trasformare il triste Compianto in un evento radioso, fuori città, un primaverile inno alla vita, tra quinte d’alberi in fiore e un esteso prato, così che quel luogo, da landa deserta, diventi hortus conclusus, nuova creazione, giardino dove il Risorto incontra l’umanità ferita.

L’uso dei colori, portati al massimo grado di purezza, esalatati dalla luce radente e impreziositi dall’oro delle aureole e delle vesti, si stempera nella trasparenza dei veli e dei capelli femminili sciolti che scorrono come acqua sulle spalle e tra le pieghe delle vesti. Attraverso questa luce l’Angelico trasfigura la scenografia cimiteriale in una santa e gioiosa celebrazione pasquale. La grande Assente, infine, risulta essere paradossalmente proprio lei: la Morte. Sconfitta dall’Amore di quei quattordici fedeli radunati in un cenacolo intorno a Cristo. Di fronte a quell’amore umano semplice ma fedele la morte è fuggita via spaventata. E con essa il grande tentatore, il demonio.

Se attraverso il “miracolo” della pittura dell’Angelico il corpo di Cristo si trasforma sotto i nostri occhi in pane vivo e il telo funebre si trasforma in tovaglia d’altare che irradia luce, tutto ciò fa pensare alla misteriosa luce che nella notte di Pasqua sprigionò dal Risorto e che avrebbe potuto impressionare il telo della Sindone, ricco di sostanze organiche, così da lasciare l’impronta, il negativo, la traccia dell’evento prodigioso della Resurrezione.

Al lato sinistro della tavola in piedi l’Angelico dipinge il fondatore del suo ordine, san Domenico di Guzman, in atteggiamento orante; davanti a lui, in primissimo Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea commentano tra loro l’accaduto come due comuni cittadini di Firenze. Dal lato opposto Maria di Magdala, solitamente china, qui osa alzare gli occhi verso Gesù quasi volesse partecipare più consapevolmente al Compianto. Tra lei e la Madre di Gesù due figure: la prima, una pia donna di spalle dalla chioma color grano e che tiene tra le mani il polso destro di Gesù, quasi ad auscultarne i battiti del cuore; la seconda, l’Evangelista Giovanni, è intento a sostenere il braccio sinistro di Gesù.

Dall’altra parte della composizione appare Villana Delle Botti, fiorentina, terziaria domenicana, con le braccia incrociate sul petto e una raggiera intorno al capo che la indica “beata” mentre la scritta che le esce di bocca dice:“Cristo Gesù, l’amor mio crocifisso”. I santi dell’Angelico si distinguono dai beati perché al posto del nimbo hanno una raggiera sottile intorno al capo. Di fianco alla beata Villana, in primo piano, santa Caterina d’Egitto con corona, palma del martirio e nimbo dorato.

Nel Compianto i presenti radunati intorno a Cristo (con grande prevalenza femminile, dieci su quattordici) rappresentano i sentimenti di un popolo intero, piccolo gregge, resto d’Israele che, fuori dalla mura della città (Firenze-Gerusalemme), si raccoglie per fare memoria di quell’unico Amore che dà senso alla loro esistenza. Quell’Amore che faceva dire all’Angelico, a proposito dell’impegno vocazionale della pittura, che “chi faceva quest’arte aveva bisogno di quiete e di vivere senza pensieri; e chi fa le cose di Cristo, con Cristo deve stare sempre”. Per questo, già priore, l’Angelico rinunciò a diventare vescovo di Firenze e rinunciò anche a dipingere un ciclo per una cappella di Prato. Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato il 3 ottobre 1982. E oggi nel Museo Diocesano di Torino la sua opera Compianto sul Cristo morto, a confronto con la santa reliquia della Sindone, ci dà una lezione di amore all’unica bellezza che salva: la bellezza crocifissa di Gesù.