Famiglia Cristiana n° 01 - gennaio 2013

I SETTE VIZI CAPITALI NELL'ARTE: Quel nemico che abbatte gli angeli

È il rapporto deformato con il fare e con Dio. Le riflessioni di Enzo Bianchi e le opere di Bosch, Caravaggio, Odazzi, Tiepolo e Chagall.

Enzo Bianchi dedica il suo ultimo appuntamento con i vizi capitali a vanagloria e orgoglio. E ci fa notare che se ingordigia e lussuria – la prima coppia di vizi da cui eravamo partiti – soddisfano il nostro godimento fisico, vanagloria e orgoglio sono vizi ben peggiori poiché riguardano la sfera della nostra psiche. Potremmo definire la vanagloria come l’arte di farsi belli agli occhi propri e altrui. L’icona della vanagloria è una donna allo specchio così come ce la rappresenta il pittore fiammingo Hieronymus Bosch. O un bel giovane innamorato della propria immagine come il Narciso di Caravaggio (1599). Ma non solo le donne e i giovani si lasciano tentare dal vizio della vanità. Nella nota fiaba di Andersen “I vestiti nuovi dell’imperatore” anche il re si pavoneggia davanti ai suoi sudditi. E non si accorge di essere nudo. Beffato, nella sua vanagloria, da due sarti imbroglioni.

Il vanaglorioso cercare l’applauso e il consenso altrui. Già in epoca comunale la vanagloria vestiva i panni dell’allegoria del Cattivo Governo nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti (Siena, palazzo pubblico) Molti pittori esprimono la vanità e i lussi effimeri delle grandi corti italiane ed europee. Nel Cinquecento Mantegna alla corte dei Gonzaga (Mantova, Camera degli sposi. Nel Seicento Velasquez in Les Meninas (1656) ci mostra alla corte spagnola di Filippo IV l’inchino di una bambina-damigella a un’altra bambina, l’Infanta Margherita. Nel Settecento infine il pittore neoclassico Ingres celebra con due ritratti la magnificenza del Re Sole e dell’imperatore Napoleone Buonaparte.

Potremmo battezzare la vanità come “la sindrome del pavone”. Ma ben sappiamo che questo animale nie primi sarcofagi cristiani è simbolo di resurrezione. Pavoni a parte, la trappola della vanità è sempre in agguato. La vanagloria può travestirsi di falsa carità come quella un po impicciona di donna Prassede nei Promessi sposi verso la povera Lucia Mondella. Anche per il profeta Giona la tentazione dell’amor proprio è sempre in agguato: si irrita di più per una pianta rinsecchita che per il destino degli abitanti di Ninive.

Dall’orgoglio alla superbia il salto è breve. Il più grave peccato fu quello degli angeli superbi e orgogliosi che si ribellarono a Dio come nell’affresco Caduta degli angeli ribelli di Giovanni Odazzi (1663-1731) che si trova a Roma, sulla volta della Chiesa dei Santissimi Apostoli, Altro spirito esprimono figure mitologiche come quella di Prometeo, Icaro e Ulisse,. Qui non si tratta di superbia ma di quell’istinto che spinge gli uomini a superare i propri limiti. La sete di conoscenza, per esempio, spinge Ulisse nel suo “folle volo” (Inferno, canto XVII) oltre le colonne d’Ercole. E l’immagine di Icaro che vola verso il sole è usata da Marc Chagall nella sua Caduta di Icaro (1974-77) per rappresentare le aspirazione più sublimi dell’arte.

C’è una sola arma infallibile contro l’orgoglio: l’umiltà. Se l’orgoglio è il padre di tutti i vizi, l’umiltà è la madre di tutte le virtù. Ce lo mostra nel Settecento Tiepolo nel suo affresco L’umiltà scaccia la superbia (Vicenza, villa Loschi). E se gli orgogliosi e i superbi dominano il mondo, Maria nel suo Magnificat così canta l’azione di Dio: “ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Luca 1, 52-53).