Famiglia Cristiana n° 02 - gennaio 2006

L'ETà DEI BORROMEO NELLA GRANDE DIOCESI DI MILANO

LA LUCE DI CARLO E FEDERICO

Due vescovi-cugini riformano la chiesa ambrosiana, affrontano la peste e i soprusi della dominazione spagnola, promuovono l'arte e la cultura.

Dopo la vita e l'iconografia di sant'Ambrogio (cui il Museo diocesano di Milano dedicò negli anni passati ben due mostre, nella seconda coniugando la figura del grande vescovo milanese con quella di sant'Agostino, da lui battezzato) quest'anno con la mostra Carlo e Federico. La luce dei Borromeo nella Milano spagnola (ai chiostri di sant'Eustorgio, aperta fino al 7 maggio) l'importante istituzione milanese punta l'attenzione sulla grande personalità storica e religiosa che dominò la Milano spagnola della Controriforma e della peste: san Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano dal 1560 al 1631; e, accanto a lui, l'altra grande personalità, quella del cugino Federico che gli succedette alla guida della diocesi ambrosiana dal 1595 al 1631.

Se san Carlo fu il profeta che sferzò con la stessa veemenza di Ambrogio i costumi dell'epoca, rinnovando immediatamente dopo il concilio di Trento (cui partecipò con entusiasmo e passione) la vita della Chiesa milanese (liturgia, catechesi, moralità), Federico fu l'uomo della cultura, dell'arte e della comunicazione, che trasfigurò in una grande macchina mediatica la volontà popolare di vedere "santo subito" il proprio vescovo. Per premere su Roma Federico Borromeo non solo inventò l'iconografia di san Carlo (lo stendardo-gonfalone e la tela del Cerano di San Carlo in gloria coronato dal motto humilitas) ma arrivò persino a ideare - commissionandolO poi ai grandi pittori lombardi - uno dei più importanti cicli pittorici dell'epoca, paragonabile come impatto mediatico a una moderna fiction televisiva. Si tratta di 56 tele di sei metri per cinque con la vita (1602) e i miracoli (1610) di san Carlo che vengono scenograficamente, teatralmente sospese tra le colonne della navata centrale e dei transetti del Duomo. L'esposizione dei "quadroni di san Carlo" (così li chiamano affettuosamente i milanesi) si ripete ogni anno, dal giorno della festa di san Carlo (4 novembre) all'Epifania.

Quest'anno lo straordinario ciclo - naturale proseguimento della mostra - rimarrà eccezionalmente esposto fino al 7 maggio nel Duomo, dove viene proposto anche un percorso sulle orme di san Carlo. Il Museo diocesano, a complemento della mostra, propone visite ai luoghi borromeiani più significativi: alcune chiese milanesi, il Collegio di Pavia, il Sacro Monte di Varallo, il san Carlone di Arona, la Rocca e le isole Borromeo. Luoghi legati alla figura di un santo che inventò la visita pastorale, percorrendo per intero una delle diocesi più vaste d'Europa, estesa dal Po alla Svizzera.

Se la peste del 1576 fu l'emergenza umanitaria che Carlo dovette affrontare (al cugino Federico toccò far fronte all'altra più terribile, quella manzoniana del 1630, che ridusse di un terzo la popolazione di Milano) entrambi i cugini Borromeo si opposero con fermezza ai signorotti spagnoli, che incameravano per la corona le ricchezze di una città che commerciava i prodotti delle sue botteghe in Europa. La mostra ci presenta appunto quei raffinati manufatti d'arte sacra e profana, tra cui gli arredi utilizzati da san Carlo e una ricostruzione del modello dell'altare maggiore del Duomo, da lui voluto secondo le indicazioni liturgiche post-tridentine.

I pittori "pestanti"
Ma è soprattutto attraverso le grandi pale d'altare che l'esposizione milanese ci racconta il clima devozionale dell'epoca così come fu interpretato da quegli artisti che il critico Giovanni Testori definì "pestanti" proprio in riferimento al flagello della peste; dove "pesto" significa anche l'oscurità dei fondi e quel livido clima fisico e interiore che si respirava nella Milano manzoniana degli untori e dei monatti, affumicata dai miasmi della carne in putrefazione e dai falò dei lazzaretti; dove nelle strade e nelle piazze san Carlo (e poi Federico) distribuiva la comunione agli appestati, come si vede nella tela di Tanzio da Varallo.

In un altro straordinario quadro di Daniele Crespi (detto il Cerano, morto di peste nel 1632) san Carlo digiuna a pane e acqua, lasciando scorrere sul volto - e sulle pagine del vangelo aperto sulla passione - calde lacrime: straordinaria prova di naturalismo lombardo che unisce natura morta e pio exemplum devozionale. La tela San Carlo porta in processione il Santo Chiodo di Giulio Cesare Procaccini evoca un'altra antica tradizione milanese: la cosidetta Nivola, macchina barocca, scenografico montacarichi artistico attraverso cui l'arcivescovo ogni anno viene issato e ascende sulla volta absidale del Duomo, per raggiungere la reliquia (che san Carlo portava tra gli appestati) e mostrarla ancora oggi ai fedeli.

Alla fine della mostra un video ci mostra la Milano di oggi ancora segnata dal passaggio di san Carlo: non solo le grandi pale delle chiese di san Celso o della Passione ma anche le croci stazionali in largo Augusto e Crocetta. Sotto quelle croci si celebrava a cielo aperto per gli appestati che, confinati in casa, partecipavano dalle finestre a quella improvvisata liturgia. Le strade si trasformavano in chiese per la genialità di un santo pastore che non abbandonò mai il suo popolo alla morte; ma che la morte seppe trasformare, come farà Madre Teresa di Calcutta, in occasione d'amore.