Famiglia Cristiana Web - gennaio 2012

FACCIA A FACCIA CON IL VOLTO DI CRISTO

Va in scena dal 24 gennaio a Milano la contestata piéce teatrale di Romeo Castellucci intitolata "Sul concetto di volto nel figlio di Dio". Il mondo cattolico è diviso.

Lo spettacolo teatrale "Sul concetto di volto nel figlio di Dio" di Romeo Castellucci tocca una materia sensibilissima alla storia della teologia delle immagini: l'icona del volto di Cristo. E lo tocca in un modo del tutto particolare, unendo alla forza dell'immagine quella della parola pronunciata e scritta. In particolare, alla fine dello spettacolo, sul volto del Salvator Mundi di Antonello da Messina proiettato sullo sfondo della scena appare la frase "Tu non sei il mio pastore" in cui il "non" appare e scompare. Immagine e nome. Nell'Oriente cristiano l'icona è sacra proprio in forza del nome che l'iconografo aggiunge alla sua opera, che solo così acquista un valore sacramentale: luogo, spazio, materia concreta, immagine in cui viene evocata in qualche modo la Presenza stessa di chi vi è rappresentato, in questo caso il Figlio di Dio. Nella piéce di Castellucci quel volto che "tutta la terra desidera" (come recita un'antifona dei vespri di avvento), il "più bello dei figli dell'uomo" (come canta il salmo 45), viene in qualche modo fatto bersaglio di un lancio di granate-giocattolo. L'arte contemporanea rivendica i suoi diritti di libertà di espressione. Ma l'arte, a mio avviso, non può rivoltarsi contro l'arte stessa. Un simbolo che viene dal passato deve venire innanzitutto compreso e semmai valorizzato.

Risalendo la filiera di immagini che l'arte cristiana ha prodotto dai primi secoli ad oggi possiamo vedere nel bel volto rinascimentale dipinto da Antonello da Messina nel 1475 quel prototipo misterioso che è il Volto dell'Uomo della Sindone: quei ciuffi di capelli richiamano il ricciolo a Y del sangue sulla fronte dell'uomo della Sindone, immagine che l'Enea, dopo 5 anni di ricerche, ha riconosciuto umanamente impossibile da riprodurre. Il Volto di Antonello da Messina, secondo il copione teatrale di Castellucci, viene poi preso di mira come un bersaglio. Se da un lato dobbiamo riconoscere che l'arte contemporanea ha fatto passi da gigante nella sua autonomia dai dogmi del passato, dobbiamo riconoscere però che non tutto è accettabile sotto il nome di "arte". Il confronto con il passato ci può aiutare a capire in quale direzione dell'umana avventura espressiva possa condurci. Non possiamo inoltre ignorare come negli ultimi cinquant'anni, ci sia stata una grande, inaspettata riscoperta del valore dell'icona, soprattutto del Volto di Cristo: un valore che è diventato universale al di là delle varie fedi.

L'immagine del Salvator Mundi dipinta da Antonello da Messina è una tavola di legno dipinta a olio grande come lo schermo di un computer da 17 pollici girato in verticale. In teatro Castellucci proietta questa immagine in gigantografia, scegliendo un taglio orizzontale che evidenzia lo sguardo e il volto. La cultura slava, collegata alla spiritualità delle icone, ha un'espressione particolare per definire il volto: usa il termine lik che sottolinea come esso sia l'anima stessa di una persona. Il più grande iconografo russo, Andrej Rublev, a metà del Quattrocento, dipinge a Mosca il volto del suo Salvatore, lo "Spas": un volto ricco di misericordia, un'immagine che penetra nel cuore così come il largo, sereno respiro di questo volto che Antonello dipinge in Italia negli stessi anni. Il taglio fotografico che Castellucci ci propone esclude però dal dipinto di Antonello le dita benedicenti di Gesù, dita bellissime rilevate mirabilmente dal pittore in un gioco metafisico di ombre e luci: sono mani che oltre a benedire hanno guarito i malati e accarezzato i bambini. Nella volto luminoso dipinto da Antonello c'è ancora di più: gli occhi scuri e fondi sono quelli dell'ebreo Gesù; e quelle labbra hanno pronunciato in aramaico parole che nessun uomo ha mai detto prima e dopo di Lui. Parole di amore e compassione per l'umanità sofferente nell'anima e nel corpo.

Per approfondire meglio il peso "culturale" dell'operazione artistica di Castellucci occorre anche riflettere sul fatto che prima dell'anno Mille il volto del figlio di Dio (non rappresentabile per ebrei e musulmani, due culture a cui dobbiamo sul tema "immagini" tutto il rispetto dovuto) non poteva neppure per la Chiesa cattolica essere rappresentato con i segni della sofferenza, proprio per non umiliarne la divinità. Ci vollero accese discussioni teologiche, un serie di concili ecumenici, la testimonianza di san Francesco d'Assisi, la predicazione francescana e domenicana e la nascita della devotio moderna per arrivare a capire come Cristo, vero uomo e vero Dio, patisca tutti i giorni per noi sulla croce e quindi sia così vicino all'uomo da poter essere rappresentato nella sua sofferenza. Così, prima timidamente e poi con più forza, gli artisti iniziarono a rappresentare i segni dei chiodi, delle ferite e del sangue; dalla cultura nordica arrivarono in Italia i crocifissi gotici dolorosi, nacquero le prime confraternite dei flagellanti e il teatro sacro rappresentò la Passione senza risparmio di sangue, in una logica eucaristica esaltata poi dal concilio di Trento.

Nel Cinquecento si arrivò al terribile Cristo Crocifisso della pala di Isenheim di Matthias Grünenwald, carne trapassata di spine acutissime e sfigurata dai colpi di flagello diffusi in tutto il corpo, ridotto a un sacco vuoto. Ma quando Grünewald scarnifica e ferisce il suo crocifisso tutto ciò è finalizzato all'esposizione di quell'immagine in un lebbrosario per suscitare compassione. Con un salto di cinque secoli Francis Bacon nei suoi Tre studi per una crocifissione del 1962 rappresenta Cristo come carne macellata. Mel Gibson nel film The Passion del 2004 scandalizza molti rappresentando con estrema crudezza e brutalità la passione e la morte di Cristo.

Infine, se un artista controcorrente come Andy Wharol nel 1987 utilizza a suo modo l'Ultima Cena di Leonardo, avvicinando l'immagine di Cristo alle varie icone pop dell'uomo contemporaneo, dobbiamo riconoscere che altre "indicibili" operazioni e dissacrazioni sono state fatte sul tema di Cristo e del crocifisso in questi ultimi anni, di certo più blasfeme di quella di Castellucci. Forse, a ben pensarci, Romeo Castellucci ci aiuta a capire, con quella sua icona del padre nudo col pannolone, come una volta dissacrata l'icona Cristo sia più facile cadere nella dissacrazione dell'uomo. Nella sua rappresentazione teatrale forse il vero Cristo è il padre, che si confronta faccia a faccia con i volto di cristo di Antonello. Il corpo di quel vecchio padre incontinente, nudo e cinto solo da un pannolone che ricorda il perizoma di Cristo in Croce è la vera icona dissacrata. Dimenticando Cristo prima o poi si finisce per dimenticare la dignità dell'uomo e si perde il senso umano del pudore e della pietà.