Famiglia Cristiana n° 03 - gennaio 2008

A BRESCIA UN GRANDE VIAGGIO NELL'ARTE

ALLE RADICI DELL'AMERICA

Dalla conquista dell'Ovest all'irrisolta questione indiana: una riflessione sulla storia dell'Impero a stelle e strisce.

Un viaggio affascinante alle radici dell'America, dei suoi grandi spazi, della sua epopea e dei suoi miti, è quanto ci propone la mostra America! Storie di pittura dal Nuovo Mondo, aperta a Brescia (musei Santa Giulia) fino al 4 maggio. All'esposizione, una vera e propria storia della pittura americana dell'Ottocento (250 opere per la prima volta in Italia), è collegato un fitto calendario di incontri e iniziative (www.lineadombra.it, tel. 0422-42.99.99) che - dal cinema al fumetto, dalla letteratura al giornalismo e allo sport - saranno l'occasione di "grattare" la superficie del "colore-America", per giungere, si spera, a una riflessione storica più profonda sui grandi "filoni" che hanno fatto la storia di questo grande Paese, affascinante nelle sue contraddizioni. A partire dalla questione irrisolta degli indiani Sioux che nel dicembre scorso hanno dichiarato di non voler più essere cittadini americani.
D'altronde il tema della libertà - dalla Dichiarazione d'indipendenza (4 luglio 1776) alla sanguinosa guerra di Secessione (1861-1866), fino alla lotta per la conquista della Frontiera, con la vittoria dei Sioux a Little Big Horn (1876) e la loro definitiva sconfitta a Wounded Knee (1890) - è il primo dei valori su cui si fonda la grande nazione americana. E gli indiani sono l'immagine stessa di quella libertà, combattuta, sconfitta e poi celebrata dai grandi film western.
Libertà che cercavano già nel Seicento i primi Padri pellegrini che dall'Inghilterra, a bordo del Myflower, sbarcarono sulle coste americane credendo di raggiungere la Terra promessa. Nella prima sala della mostra li ritroviamo nel quadro Il reverendo Thomas Hooker in viaggio da Plymouth ad Hartford di Frederic Edwin Church, pittore amante dei grandi scenari di sapore biblico e allievo di Thomas Cole, il più importante paesaggista americano della prima metà dell'Ottocento.
Sono nomi di artisti a noi sconosciuti, appartenenti alla scuola dell'Huston River (il grande fiume che sfocia nella baia di New York); ma i loro successori sono arcinoti e hanno fatto grande la storia della pittura americana: John Sargent, James Whistler, Mary Cassat, Edward Hopper.
Nei paesaggi del primo Ottocento è la natura selvaggia e incontaminata a essere protagonista, mentre l'uomo è un piccolo puntino, perso sotto un grande cielo in cui sorge il sole, come nel primo giorno della creazione: -La meraviglia di vivere in una natura non ancora corrotta e intaccata è la prima visione che l'americano ha del mondo", scrive Marco Goldin, curatore della mostra.
E il primo frutto maturo della pittura americana ancora bambina - ma che si è liberata dal genere arcadico e accademico di influsso europeo - sono proprio questi tramonti dai colori accesi, queste grandi spiagge deserte orlate delle onde atlantiche come la costa di Beverly dipinta da Frederick Kensett o le vele nel porto di Gloucester di Hugh Lane. Che preludono al mondo in technicolor del grande cinema americano.

Dai confini col Canada ai Tropici

Questa libertà espressiva esplode nella terza sezione della mostra dedicata a vedute mozzafiato delle cascate del Niagara (Niagara Falls), una delle meraviglie del mondo. Sono tele di enorme formato, visioni dall'alto o a 180 gradi, sempre attraversate da un arcobaleno di gocce: quadri-manifesto per sensibilizzare l'opinione pubblica sulla bellezza di una natura dal salvaguardare.
E infatti il 30 aprile del 1885 nasce un grande parco nazionale a cavallo tra Stati Uniti e Canada: le Niagara Falls sono salve e diventano il primo luogo-simbolo dell'orgoglio americano.
Un altro capitolo della mostra ci porta invece in Sudamerica, verso i Tropici. Alcuni artisti, tra cui lo stesso Frederic Edwin Church, al seguito di esploratori e naturalisti, unendo la passione scientifica con le suggestioni dell'arte dipingono fiori di orchidee e passiflora, gigantesche radici di mangrovie, voli di colibrì e liane della foresta tropicale e dei suoi fiumi, in atmosfere dense di umidità in cui la pallida luce del sole fatica a filtrare. I Caraibi, la Colombia, l'Ecuador, il Brasile e poi, più a sud, la desolata Terra del fuoco, da cui i nostri pionieri-pittori riportano immagini di solitari iceberg alla deriva.
Pittori e letterati americani, poi, non rinunceranno al classico viaggio in Italia, a imitazione dei loro colleghi europei del Grand Tour. Così la dolcezza del paesaggio italiano ci viene restituita in versione oltreoceano dall'acceso fantastico pennello di Thomas Cole: il lago di Nemi o di Albano al tramonto, l'Etna innevato e fumante, la cupola di san Pietro vista dai ruderi della campagna romana.
Ma il cuore della mostra bresciana è rappresentato dalle grandi sale dedicata alla conquista dell'Ovest celebrata dai film western, dove i buoni e i cattivi si mischiano in un crogiuolo inestricabile di umanità varia. Un'epopea che ha contribuì a fondare il "mito originario" di un popolo, quello americano, privo di una mitologia, ma che si è sempre sentito biblicamente chiamato a un "destino manifesto": portare giustizia, libertà e democrazia sempre più a Ovest.
Oltre il confine di quelle Montagne rocciose che costituivano l'ultimo baluardo di difesa per gli indiani che vivevano nelle grandi pianure cacciando i bisonti, unica loro fonte di sopravvivenza. Sterminati i bisonti e cacciati gli indiani, i nuovi conquistatori istituirono i primi grandi parchi nazionali (Yellowstone nel 1872 e Yosemite nel 1890) e le grandi riserve indiane. Secondo uno schema tipico americano: conquista, conservazione, autocelebrazione.
Figura emblematica in questo senso fu William Cody, il leggendario Buffalo Bill. Guida, avventuriero, amico degli indiani, sterminatore di bisonti per conto della compagnia ferroviaria intercontinentale; e, dopo la definitiva sconfitta del suo amico Toro Seduto, impresario del leggendario spettacolare Wild West Show, in cui esibiva i Sioux in danze sacre e simulati attacchi a diligenze. Esattamente cento anni fa, nel suo tour europeo, coi suoi spettacoli Buffalo Bill fece tappa anche a Brescia. E oggi Brescia lo ricorda esponendo i suoi oggetti personali: il suo orologio, l'inseparabile Colt e il fucile Remington con cui sterminò i bisonti, la giacca di pelle a frange e la sella con cui animava le sue coreografie di cui la mostra ci propone filmati d'epoca.
Il mondo degli indiani è ricostruito con foto d'epoca e oggetti, come i coloratissimi vestiti ornati di perline, i mocassini, le borse, i copricapi piumati, le asce da guerra e le pipe della pace. La pittura celebrativa di Frederic Remington, con le sue sculture in bronzo di uomini disarcionati dai cavalli imbizzarriti caricati dai bisonti, è di estremo realismo espressivo. Le scenografiche tele di Remington sono bozzetti che preludono alle immagini tipiche del grande ciclo western hollywoodiano e agli stessi fumetti che ci hanno fatto sognare da ragazzi.
La mostra chiude con capolavori di Mary Cassat, James Whistler, John Sargent, pittori in cui l'influsso dell'impressionismo francese è mitigato dalla visione americana delle cose, più concreta e realistica. Le strade di Boston affollate di carrozze, la quiete dei giardini, una splendida galleria di ritratti sospesi tra il fascino discreto della maternità e il tradizionalismo delle dame della ricca borghesia americana sono l'ultimo scorcio che l'arte ci regala su un popolo fatto di molti popoli, molte anime, molti volti e molteplici radici. L'America, appunto.

NON VOGLIONO PIù ESSERE "AMERICANI"

I discendenti dei fieri Lakota, i nipoti di Toro Seduto e Cavallo Pazzo che vivono nelle grandi riserve del Nebraska, del Dakota, del Montana e del Wyoming, dopo 150 anni di promesse non mantenute hanno chiesto l'indipendenza da Washington stracciando simbolicamente i Trattati. I territori in cui vivono queste tribù Sioux dovrebbero costituire la base del nuovo Stato "indiano".
Si tratta di puro folklore o di reale volontà politica? Lo abbiamo chiesto al professore Paolo Carozza, docente di diritto internazionale all'Università Notre Dame dell'Indiana e membro della commissione inter-americana dei diritti umani.
- Professor Carozza, è giustificata la protesta degli indiani Lakota?
-Sì, obbiettivamente la condizione in cui vivono oggi gli indiani in molte riserve, ma non tutte a dire il vero, non è degna di una comunità umana: sono più esposti alle malattie, la loro aspettativa di vita è bassa, mancano il lavoro e un serio progetto educativo che faccia ben sperare per il futuro delle giovani generazioni".
- Colpa del Governo americano?
-Paradossalmente il Governo americano, più di ogni altro Paese al mondo, ha un grande rispetto delle minoranze indigene. Ma, in nome dell'autonomia, lascia gli indiani soli, abbandonati a sé stessi, alla loro ignoranza e incapacità di autogestirsi".
- Un eccesso di liberalità?
-Esatto. Lasciati in balìa di se stessi, senza mezzi adeguati e un vero progetto di integrazione, gli indiani d'America non arriveranno mai a conquistare una reale autonomia economica e culturale".
- Perché gli indiani considerano carta straccia 150 anni di Trattati?
-I vari accordi stipulati con il Governo degli Stati Uniti dal 1890 a oggi sono stati violati ogni volta che non era più conveniente per Washington affidare il territorio alla sovranità limitata di queste popolazioni, costrette a forzate e ripetute migrazioni".
- Si può parlare, tra '800 e '900, di genocidio del popolo indiano?
-Non userei questo termine, non c'è stata una vera intenzione di eliminare il popolo indiano; anche se, per il passato, si può parlare di decimazione forzata e confinamento nelle riserve".