Famiglia Cristiana n° 27 - giugno 2005

LA CERTOSA DI PADULA è TORNATA AL SUO PRIMITIVO SPLENDORE

DALLA PALUDE AL PARADISO

Nel cuore dell'antica Lucania, tra il parco del Cilento e la Basilicata, una vera e propria cittadella dello spirito, un tempo abitata dai certosini, sta diventando meta ambita di turisti italiani e stranieri.

Chi arriva alla Certosa di Padula percorrendo l'autostrada Salerno-Reggio Calabria, a mezza costa, sul fianco destro della verdissima valle percorsa dal fiume Tanagro, davanti ai monti della Maddalena, può avere l'impressione di entrare in una dimensione fuori dal tempo. Complice l'aria frizzante, il colore intenso del cielo, e la sensazione tutta letteraria che si prova, superando Eboli, di avere varcato le colonne d'Ercole dell'Italia descritta da Carlo Levi nel suo capolavoro: "Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania".

Ma tutto ciò non è vero. Oggi non è più così. Si sta scavando per aggiungere la seconda corsia alla terribile Salerno-Reggio Calabria; e un viadotto già pronto collegherà presto Battipaglia alle splendide coste di Marina di Camerota e Palinuro, gioielli di un mare a cinque stelle su cui si affaccia il parco nazionale del Cilento. A pochi chilometri dalle sue coste, ormai facilmente raggiungibile in auto, si apre dunque l'antico e suggestivo Vallo di Diano (uscita Padula-Buonabitacolo), dove la Certosa ci appare adagiata nel fondovalle, come una signora che si è appena risvegliata da un lungo sonno, come una città che emerge dal fondo di un lago (nel pleistocene qui c'era davvero un lago glaciale).

La Certosa di Padula (in dialetto padùla significa proprio palude) fu fondata nel 1307 da Sanseverino, conte di Marsico, perché i certosini bonificassero l'antico e paludoso Vallo di Diano, coltivando e amministrando le terre intorno per conto degli Angioini, suoi protettori. Questa splendida reggia dello spirito fiorì dunque, anche per motivi politici, dal Trecento al Settecento, estendendo i suoi domìni fino al golfo di Taranto.
Patrimonio dell'umanità

Finché nel 1807 fu invasa e depredata dalle truppe napoleoniche e tutte le sue opere d'arte sparirono per sempre; nel 1866, poi, i certosini (accusati di essere filoborbonici) vennero soppressi e dovettero rifugiarsi a Serra San Bruno, in Calabria. La certosa di Padula, confiscata dallo Stato, fu dichiarata patrimonio nazionale nel 1888; da allora conobbe abbandono e degrado: rifugio occasionale di uomini e animali, lazzaretto, carcere, caserma, ospedale, campo di concentramento, orfanotrofio.

Finché i restauri del 1982 le hanno restituito gran parte dell'antico splendore; e l'Unesco, nel 1998, l'ha dichiarata Patrimonio dell'umanità.

Ma una Certosa senza certosini è un po' come un'alveare senza api. Occorre dunque uno scatto di fantasia, entrando nel primo grande cortile dei conversi, per immaginare il chiasso e la confusione operosa che accompagnavano le varie attività che fervevano in quegli spazi: gli scambi tra abitanti del luogo e conversi (zappe e sementi in cambio di uova e verdura), le elemosine concesse ai più poveri. Nella spezieria si potevano trovare le preziose erbe medicinali che i monaci coltivavano nei loro orti.

L'anima e le ricchezze

Potentissima la Certosa, e potenti erano i certosini che dobbiamo ora immaginare pensosi e indaffarati, nei chiostri o nelle loro celle. Spesso erano secondogeniti di nobili famiglie che portavano nel monastero, insieme con l'anima, ingenti ricchezze, rendendo questo luogo una vera e propria reggia dello spirito, dove lavoravano i migliori artisti, sposando silenzio e aristocratica bellezza. Tanto che la Certosa di Padula veniva anche chiamata dalla gente del posto "la Duchessa" o "la Contessa".

Visitare la Certosa significa immergersi in una specie di "città proibita" estesa su un'area di 50.000 metri quadrati (due chilometri di perimetro), divisa in città bassa (quella dei conversi, dei pellegrini, dei braccianti e degli artigiani) e città alta, dove i monaci vivevano la Regola di san Brunone, loro fondatore, lontani dalle cure materiali, alternando studio, preghiera e lavoro. Lasciato l'immaginario mercato esterno, gli spazi interni della Certosa ci vengono incontro: chiostri, cappelle, luoghi di rappresentanza, di lavoro e preghiera; ma anche di governo e amministrazione della giustizia, spazi che rispondevano tutti a funzionalità ben precise come il chiostro degli ospiti o dei procuratori.

Vista dall'alto, in un incrocio di linee ortogonali, la pianta della Certosa riproduce il disegno della graticola su cui fu martirizzato san Lorenzo; questa del resto era la tipologia che si ripeteva: dalla Grand Chartreuse francese (fondata da san Brunone), madre di tutte le certose, alle italianissime Serra San Bruno in Calabria, Trisulti presso Frosinone, San Martino a Napoli, San Giacomo a Capri.

I monaci e i conversi

La splendida claustrale chiesa a una navata è divisa in due dalla grata: di qua 24 stalli per i conversi, di là 36 per i monaci; gli intarsi lignei sono del '500, le volte affrescate e ornate di stucchi e il pavimento a maioliche del '700 napoletano. L'altare, a intarsi bianchi e neri di scagliola (arte povera ma raffinatissima), evoca disegni di uccelli paradisiaci, putti e fiori di cangianti colori, fronde viola e madreperla da cui nasce il monogramma CAR di Cartusia: Certosa.

Tutto qui ci parla delle proverbiali doti certosine: il silenzio dei grandi spazi scanditi dalla sobria architettura, la pazienza e la laboriosità che c'è in ogni particolare. La pazienza certosina e il culto del bello si vedono non solo nelle opere d'arte, ma anche nella cura per gli orti e i giardini, dove si coltivavano essenze e fiori rari e dove cinguettano ancora oggi - ci assicura il custode - uccelli altrettanto rari, molto simili a quelli riprodotti a intarsio sugli altari. Così, esterno e interno, arte e natura si completano, evocando per noi una sorta di paradiso ritrovato. Oggi il restauro e la cura degli spazi esterni e interni continuano e, sull'esempio dei certosini, dimostrano che è ancora possibile trasformare la palude in un giardino.