Famiglia Cristiana n° 34 - agosto 2007

APERTA A TRENTO "ORI DEI CAVALIERI DELLE STEPPE"

I TESORI DI GENGIS KHAN

L'esposizione al Castello del Buonconsiglio, proveniente dalle collezioni dell'Ucraina, ci permette di capire come vivevano gli antichi pastori nomadi della Mongolia.

Il fascino della mostra Ori dei cavalieri delle steppe. Collezioni dai musei dell'Ucraina, che il Castello del Buonconsiglio di Trento ospita fino al 4 novembre (catalogo Silvana), viene da lontano. E come il vento della steppa porta i colori, i profumi, le emozioni di questo infinito mare d'erba che si distende ininterrotto per 7.000 chilometri, dal Danubio al Fiume Giallo, passando dal Mar Nero al Caucaso, dal Mar Caspio agli Urali, sfumando a Sud con laghi, montagne e deserti e a Nord con immense foreste di conifere e latifoglie, fino alla desolata taiga siberiana.

Colori, profumi ed emozioni evocati da Nikolaj Gogol nel suo romanzo Taras Bulba (1834): "Tutta la superficie della terra sembrava un oceano verde- oro, spruzzato da milioni di fiori diversi. Attraverso gli alti steli sottili dell'erba trasparivano viole azzurre, turchine e lilla; la ginestra gialla spuntava in alto con la sua cima a piramide... Il diavolo vi porti, oh steppe, come siete belle!".

I pastori erranti dell'Asia

Colori, profumi, emozioni; ma soprattutto l'impeto selvaggio dei cavalieri delle steppe, il tam-tam degli zoccoli dei loro cavalli, il muggito del bestiame, il cigolio dei carri (kibitka, in mostra modellini in argilla del I secolo d.C.), l'odore del fumo che usciva dalle loro tende (yurta, in mostra una tenda vera, visitabile e arredata). All'inizio del percorso espositivo alcune sequenze del film Il cane giallo della Mongolia (di Byambasuren Davaa, 2006) ci mostrano una famiglia di nomadi di oggi mentre smonta la sua yurta, fatta da una struttura di legno a "stecche di ombrello" e ricoperta di feltro e pelli. Mobili, tappeti e oggetti d'uso comune vengono caricati su carri trainati da buoi; tra le mercanzie, unici elementi di modernità una vecchia moto rossa e una piccola pala eolica.

Sono questi nomadi (che ispirarono a Leopardi il suo Canto notturno di un pastore errante dell'Asia) gli eredi degli antichi popoli delle steppe? è probabile, anche se quasi tre millenni sono passati da quando i Cimmeri si insediarono nelle terre tra il Mare del Nord e il Caucaso, scacciati nel VII secolo a.C. dagli Sciti, di origine iraniana. Poi vennero i Sarmati, i Goti, gli Alani e i terribili Unni. Nei secoli XIV-XV, infine, l'Orda d'oro di Tamerlano e Gengis Khan, dalla Mongolia, invadeva la steppa e vi scacciava gli altri popoli, conquistando Kiev (Ucraina) e assediando Mosca. Nei loro discendenti, i tatari (o tartari), signori dei cavalli, ancora si imbattevano i viaggiatori russi del Sette-Ottocento, come racconta il protagonista di Il viaggiatore incantato (di Nikolaj Leskov, 1873), per 10 anni loro prigioniero tra le steppe e i campi di "santoreggia e assenzio": gli avevano imbrigliato i piedi con crine di cavallo cucito sotto la pelle per impedirgli la fuga.

Le feroci donne-guerriero

Popoli crudelissimi, questi cavalieri delle steppe erano tribù senza fissa dimora che alla violenza e alle alleanze di sangue tra clan affidavano il controllo del pascolo e la loro possibilità di sopravvivenza. Spietati coi nemici, come gli Sciti, "tagliatori di teste", spesso dediti ai sacrifici umani, neppure teneri coi loro stessi figli, cui ferivano le guance per abituarli al dolore, né con le loro donne-guerriero, abilissime a cavalcare e combattere, le mitiche Amazzoni di cui scrive nel V secolo a.C. lo storico greco Erodoto, raccontando così: "Vanno a caccia con o senza i loro uomini, combattono in guerra e indossano abiti maschili. Per quanto riguarda il matrimonio, è loro usanza che nessuna possa sposarsi se non uccide prima un nemico; per tal motivo alcune invecchiano e muoiono nubili".

Unico dio, il signore della guerra

Poiché i popoli delle steppe non abitavano case e non erigevano templi (l'unica loro divinità era il dio della guerra), gli oggetti che troviamo esposti nelle sale del Castello del Buonconsiglio provengono tutti dalle sepolture funebri principesche, i kurgan, cumuli di terra che caratterizzavano (e ancora caratterizzano) l'uniforme paesaggio stepposo. Unici punti fermi "d'arrivo" in quel mare d'erba, i kurgan erano sormontati da una stele con i tratti della divinità guerriera che aveva funzione magico-protettiva: il suo sguardo di pietra significava il perpetuarsi di un potere che andava oltre la morte.

Un altro grande scrittore russo, Anton èechov, così descrive il fascino di questi cumuli funerari nel racconto La steppa (1888): "Si cammina un'ora, due ore, si incontra un vecchio tumulo misterioso o una donna di pietra posta là non si sa da chi né quando e a poco a poco s'affacciano alla memoria le leggende della steppa".

In una sezione della mostra è esposta una stele funebre ed è stato ricostruito a dimensione naturale un kurgan che si può "visitare": grotte e corridoi sotterranei introducono in "stanze" dove sono sepolti re e regine con i loro abiti da cerimonia e gli oggetti funebri. Accanto al re venivano sacrificati e sepolti il suo coppiere, il cuoco, le guardie e le concubine. Anche il cavallo - vero alter ego dei guerrieri delle steppe - veniva ucciso e sepolto accanto al suo padrone.

Tra gli straordinari manufatti esposti a Trento ci sono autentici capolavori di arte barbarica primitiva, che mostrano come questi rozzi guerrieri sapessero lavorare con grande raffinatezza e gusto l'oro, esprimendo in straordinarie sintesi grafico-espressive la loro aggressività e rappresentando scene di lotta tra animali veri; spesso però addolcendosi nell'imitazione dei canoni espressivi dei popoli con i quali venivano a contatto, come i bassorilievi che ornano faretre (gorytos), cinture, spille e bracciali, tutti di chiaro influsso greco.

L'amore per gli spazi infiniti

I popoli delle steppe, come racconta Omero, erano "mungitori di giumente" e la loro tipica bevanda era il latte, al contrario dei popoli del Mediterraneo, "popoli del vino". Se gli antichi Sciti si spinsero, come sembra, fino all'Egitto, un vero e proprio "Impero delle steppe" non è mai esistito: l'amore per gli spazi infiniti, l'odio per le barriere, le mura e i recinti, spingevano questi popoli a una continua transumanza legata ai cicli stagionali. Se i romani fermarono la pesante cavalleria catafratta (con lunghe lance) dei Sarmati lungo il limes del Danubio (e i cinesi sul confine della Grande Muraglia), proprio i romani appresero dagli Unni l'uso della staffa e della bardatura, che consentiva al cavaliere controllo e stabilità sull'animale.

E se il vescovo di Costantinopoli, nel IV secolo, poteva scrivere che "i barbari hanno abbandonato i loro territori e molte volte hanno invaso vasti tratti delle nostre terre, incendiando la campagna e occupando le città", l'arte barbarica dei popoli delle steppe, con il suo ricco bestiario fantastico e i suoi smalti coloratissimi, eserciterà grande influsso sulla cultura figurativa europea, romanica e gotica. A riprova che il richiamo della steppa e dei suoi popoli (una steppa, tante steppe quante sono i nomadi) ha sempre esercitato - e continua a esercitare ancora oggi - il suo fascino sulla nostra sedentaria Europa.