Famiglia Cristiana n° 36 - settembre 2007

LA FELICITà: ECCO DOVE CERCARLA E COME RAGGIUNGERLA

L'ISOLA DEL TESORO

Essere felice è il traguardo di ogni uomo, una meta alta e impegnativa. Per raggiungerla occorre impegnarsi in una navigazione verso l'infinito, che dura tutta la vita.

Amarsi, conoscersi. Amare, conoscere gli altri. Essere felici. Insomma le cose che contano davvero nella vita. La collana per i lettori di Famiglia cristiana "Amare se stessi per amare gli altri", diretta da Claudio Risè, si chiude con questo dodicesimo volume dal titolo: "La stanza della felicità" di Vittorio Luigi Castellazzi, psicologo e psicoterapeuta. Se ogni volume è stato il gradino di una piccola scala che ha potuto suggerirci dei passi utili, l'ultimo ci presenta una meta alta e impegnativa: cercare, desiderare, raggiungere la felicità. Felicità è una parola grossa. Esisterà poi davvero? Verrebbe da dire che ci potremmo fermare un po' più in basso. Accontentarci di qualcosa di meno: un po' di serenità, niente guai, la salute (quando c'è la salute c'è tutto, ed è anche vero), qualche piccolo piacere, niente conflitti.

Invece senza la felicità non si può vivere. Il nostro cuore è fatto per questo. Chi rinuncia alla felicità rinuncia a vivere. La felicità è scritta nel nostro DNA interiore, nella nostra memoria come un'esperienza elementare e ancestrale; un déjà vu, qualcosa che confusamente ricordiamo di aver già vissuto, a cui aspiriamo tutti, ma ciascuno in modo diverso dall'altro; qualcosa soprattutto a cui non sappiamo dare una concreta consistenza. Figurarci raggiungerla! Scrive Dante Alighieri nella Divina commedia che ogni uomo apprende in modo confuso e desidera un bene sommo: "Ciascun confusamente un bene apprende / nel qual si queti l'animo, e disira; / per che di giugner lui ciascun contende" (Purgatorio, canto XVII, 127).

Felicità. E il suo contario: l'infelicità, malattia dell'anima. Affrontiamo dunque il tema lasciandoci accompagnare dall'autore del libro "La stanza della felicità". Interrogando in parallelo i grandi spiriti del passato: Aristotele, sant'Agostino, Dante, Leopardi. Fino allo scrittore e filosofo Albert Camus che ci provoca: "Siate realisti, domandate l'impossibile!" (Il mito di Sisifo). Perché questo è il punto. Essere realisti. Ma come fare senza abbassare la guardia? Infatti "non ci siamo mai completamente rassegnanti all'uscita dal paradiso" scrive Castellazzi nel suo illuminante capitolo "Felicità e sofferenza"; ma non si può separare piacere e dolore; la vita è un dramma e "sganciare la felicità dalla drammaticità della vita è rendere tutto evanescente". Come sottolinea lo psicanalista Erich Fromm: "chi non riesce a provare dolore non è vivo, e chi non è vivo non può nemmeno essere felice". Così il binomio felicità-sofferenza si impone. Perché anche troppa felicità può far morire. Come il piccolo anemone descritto dal poeta Rainer Maria Rilke: "Si era talmente aperto durante il giorno che non riusciva più a chiudersi per la notte. Accanto tutti i suoi saggi fratelli, ognuno chiuso nella sua piccola misura di abbondanza". Ma ci si può rassegnare a una felicità misurata?

La felicità, come dicono Freud e gli psicologi, sarà certamente anche il ricordo di uno stato di unione che sta alla nostra origine: il rapporto di simbiosi con la madre, ricercato poi per tutta la vita nel rapporto fusionale con l'altro sesso. O la sua sublimazione in una vita spesa per gli altri. Ma cosa c'è al di là di nostra madre, nelle profondità insondabili del nostro essere, unico e irripetibile?

Grida sant'Agostino, l'epicurèo che ha scoperto in Dio la propria felicità: "Tardi ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato... Tu hai chiamato e gridato e squarciato la mia sordità. Tu hai balenato e brillato e fugato la mia cecità. Tu hai mandato il tuo olezzo e io l'ho aspirato" Confessioni, cap. IV). Nella Divina Commedia, per Dante la felicità non è cosa statica, ma un continuo cammino di ascesa verso quell'attimo di contemplazione dei cieli aperti che è dono eccezionale dei mistici (la visione di san Paolo) e dei poeti. L'uomo, ogni uomo, è viandante e pellegrino dell'Assoluto, mendicante di luce. In ciò Dante riprende, attraverso san Tommaso, il pensiero di Aristotele, fortemente realistico, per cui la felicità non è uno stato di estasi ma - su questa terra - è un'attività virtuosa incessante che porta verso quel Dio il cui possesso è felicità vera. Si domandava Aristotele: "Come mai nessuno prova piacere in continuazione?. Non è forse perché ci si stanca? Nulla infatti di ciò che è umano può rimanere in attività in maniera continua" (Etica Nicomachea). Sembra di sentire rieccheggiare la voce di Leopardi: "Dimmi: perchè giacendo / a bell'agio, ozioso, / s'appaga ogni animale; / me, s'io giaccio in riposo, / il tedio assale? (Canto notturno di un pastore errante dell'Asia).

Insomma, il nostro cuore è fatto per l'infinito e negarlo sarebbe come costruirsi una prigione con le proprie mani; condannandosi all'infelicità. La felicità non è uno stato d'animo, un momento che passa, ma una "ricerca interminabile" come ancora suggerisce il titolo dell'ultimo capitolo di Castellazzi; una tensione che dura tutta la vita. Ancora ci convince e illumina Camus: "La felicità è una lunga pazienza". E Seneca: "Resta ancora molto lavoro a cui tu, di persona, devi dedicare le tue veglie, le tue fatiche". Non assomigliano queste frasi a quelle di Gesù ai suoi discepoli, che lo seguono perché hanno identificato in lui la loro felicità: "Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo" (Luca 9,58)? E ancora, nell'orto degli ulivi: "Vegliate e pregate" (Matteo 26,41)? Eppure sta andando verso il Padre, verso il Mistero del'essere, verso Dio stesso di cui è Figlio. Si rincongiunge al Padre così come noi vorremmo ricongiungerci a quell'origine di cui siamo fatti, in Lui, consustanziali.

Abbiamo con Gesù non solo una comune origine ma anche una identità sostanziale. Suoi fratelli e fratelli tra noi. Così che l'eros può trasformarsi in agape, in comunione fraterna. Quello che i russi chiamano sobornost (comunionalità) e che sognarono nell'utopia del comunismo, un'eresia essenzialmente religiosa che prometteva felicità; tanto che oggi riscoprono in Russia, dopo tante sofferenze e delusioni, attraverso i loro grandi mistici la grandezza dell'Ortodossia. Teologia dello sguardo. Così che guardando le cinta murarie di Gerusalemme, nella visione la nostalgia si placa; in un volto che guarda nel volto stesso dell'Infinito: gli sguardi delle sacre icone.
L'anelito e il sospiro che c'è nella poesia "L'infinito" di Lepoardi ("così in questa immensità s'annega il pensier mio / e il naufragar m'è dolce in questo mare") si placherà solo nella visione finale. Felicità è camminare in quella direzione. Conclude Castellazzi: se dal vaso di Pandora, una volta aperto si sparsero nel mondo tutti i mali (e come non pensare al peccato originale), non dobbiamo, noi, fare come la moglie di Epimeteo, che spaventata ne richiuse il coperchio; e così facendo vi chiuse dentro, per sempre, l'unico spirito buono che conteneva, il solo in grado di alleviare le sofferenze dell'uomo sulla terra. E noi sappiamo che quello spirito buono esiste. Ne conosciamo addirittura il volto e il nome.