Famiglia Cristiana n° 40 - ottobre 2007

UN LIBRO-INCHIESTA SU "COME NASCE" OGGI LA VOCAZIONE

I RAGAZZI DI DON MASSIMO

Quindici storie di giovani della Fraternità missionaria San Carlo.
Mons. Camisasca ci racconta il suo metodo educativo: "Non rinnegare niente della loro umanità".

Normalmente i preti sono più abituati ad ascoltare gli altri che a parlare di sé stessi. Questa volta, invece, 15 sacerdoti della Fraternità San Carlo hanno accettato di raccontare alla giornalista Marina Corradi come è nata la loro vocazione. Ne è uscito un libro-inchiesta - Innanzitutto uomini (San Paolo) -, 15 storie concretissime di ragazzi d'oggi che, dalle difficoltà e dalle contraddizioni dell'adolescenza, approdano alla decisione di farsi preti e missionari. Ne parliamo con il fondatore della Fraternità San Carlo, monsignor Massimo Camisasca, lombardo, sessantenne, sempre in viaggio per visitare i suoi "100 figli" presenti in 25 "case" sparse ormai in tutto il mondo.

- Monsignor Camisasca, perché questo titolo così provocatorio: Innanziutto uomini?
"Il titolo nasce da una frase di don Luigi Giussani: "Per essere preti occorre essere uomini". Penso che oggi il punto fondamentale della vita sacerdotale sia proprio questo. Negli anni '70 il problema era di natura ideologica: spesso non si sapeva più cosa significasse essere preti. Oggi, invece, il problema è di natura affettiva: si vive molto la solitudine, la paura di non realizzare sé stessi. Invece, la vita sacerdotale è una vita pienamente umana, piena di prove ma anche di grandi soddisfazioni. Una vita desiderabile, insomma. Ma dove sta la radice di questo desiderio? Non in ciò che si fa, nell'impegno, nelle opere, ma nel fatto che essere sacerdoti è un modo entusiasmante per seguire Cristo; e per verificare che, seguendo lui, tutti gli aspetti e le dimensioni della nostra personalità vengono espressi e potenziati".
- "Voglio essere un uomo come lui" è una frase che, nel libro, ricorre spesso in bocca ai ragazzi intervistati . La vocazione nasce dunque come imitazione di qualcuno che ci affascina?
"è così. La vocazione è un suggerimento che Dio dà all'uomo, ma è altrettanto vero che questi suggerimenti non arrivano per mano di un angelo, bensì attraverso volti precisi. Attraverso gli uomini. Durante questi 22 anni, parlando con tantissimi giovani ho scoperto che, alla radice della loro vocazione, c'era sempre la figura di un prete che li aveva affascinati. Al punto tale da fare dire loro: "Voglio essere come lui". Anche per me è stato lo stesso: se nel 1965, alla fine del liceo classico Berchet, ho detto a don Giussani, insegnante di religione, della mia idea di diventare sacerdote, è stato perché desideravo essere come lui".
- Nelle storie di questi 15 ragazzi c'è spesso una storia d'amore. Innamorarsi può essere un'obiezione alla vocazione sacerdotale?
"Niente affatto. Anzi. Ai ragazzi che vogliono entrare in seminario chiedo sempre: "Ti sei mai innamorato di una ragazza?". E tiro un sospiro di sollievo quando mi dicono di sì. Perché la verginità non è la cancellazione degli affetti, ma la scoperta che quegli affetti possono essere vissuti non solo attraverso una relazione fisica, ma anche in modo diverso, trasfigurato. Essere innamorati è segno di sanità affettiva e va nella direzione che ho detto all'inizio: innanzitutto uomini. La via alla verginità esclude il matrimonio ma non è la negazione di quella dimensione: è la possibilità di realizzarla in modo diverso, più pieno".
- Attraverso un'altra forma di paternità, dunque?
"Sì, una paternità spirituale, anche se la parola "spirituale" non rende bene: non si vuole infatti negare la primarietà della paternità biologica. Io sento che i ragazzi della Fraternità San Carlo sono davvero miei figli. Però nella loro educazione non devo sostituirmi alla loro famiglia, ma affiancarla. E quando vedo che alcuni si sono allontanati dai loro genitori e non hanno un buon rapporto con loro, li aiuto innanzitutto a recuperarlo. Del resto, non ci può essere vera paternità spirituale se non a partire da quella naturale, biologica".
- Come avviene la formazione dei vostri seminaristi?
"è un percorso fatto di strade che si intersecano. La prima è la scoperta della dipendenza da Dio e dal suo disegno su ciascuno di noi: questa verità si scopre con il silenzio e la preghiera. Un'altra strada importantissima è il lavoro, che per il seminarista passa attraverso l'impegno nello studio, come ricerca di Cristo. Oggi dobbiamo però riscoprire anche l'importanza del lavoro manuale, concreto: per esempio zappare la terra. Penso alla sintesi geniale di san Benedetto, che raccoglieva intorno a sé persone che venivano da esperienze difficili e portava la loro vita a compiersi in modo pienamente umano, coniugando la preghiera e lavoro".
- Poi, naturalmente, c'è la dimensione della vita comune...
"Tra gli anni di filosofia e di telogia i seminaristi della Fraternità San Carlo trascorrono un anno in missione nelle nostre case all'estero. La vita comune è fondamentale nell'educazione: non basta abitare sotto lo stesso tetto, è necessario scoprire che l'"altro" è indispensabile al realizzarsi della mia vocazione, è un fratello che Dio mi ha dato per camminare verso di Lui".
- La Fraternità San Carlo è presente non solo nel Sud del mondo ma anche in città come Vienna, Praga e Budapest, in Canada o negli Stati Uniti, che non sono propriamente terra di missione. Perché questa scelta?
"Fin dall'inizio ho capito che la missione Ad gentes ha un suo significato preciso. La Redemptoris missio lo dice con chiarezza: oggi gentes sono tutti i popoli del mondo, quelli che non hanno ancora incontrato Cristo e quelli che lo hanno dimenticato. Se guardiamo la percentuale di partecipazione alla Messa o il numero dei battesimi in Europa centrale, ci rendiamo conto che questi luoghi sono da rievangelizzare non meno dell'Africa o dell'Asia. Anche qui in Italia c'è un grande bisogno, una grande domanda nel cuore degli uomini: trovare la propria strada, capire che certamente non siamo soli e che, anche nell'esperienza del dolore, ci possono essere una positività e una speranza".
- Quale sentimento prova verso i suoi sacerdoti?
"Gratitudine a Dio per ciò che ha operato attraverso di me; e non certo per merito mio. E gratitudine verso questi giovani uomini che, nella loro semplicità, hanno risposto di sì non solo a Dio ma anche alla Fraternità. Bisogna essere molto semplici e grandi per capire che l'"io" coincide con un "noi" e che l'unità che viviamo è il miracolo più grande: lontanissimi dal punto di vista geografico, vicinissimi dal punto di vista spirituale e affettivo. Da questi sacerdoti ricevo molto e alla fine sono essi stessi "i padri del loro padre". Nello stesso tempo accettano che io li guidi: c'è un interscambio naturale, come avviene nella famiglia naturale, appunto".
- Come vive la dimensione della sua vita, sempre in viaggio per il mondo a visitare le missioni?
"Penso che quando mi presenterò davanti a Dio mi domanderà: "Come mai hai passato più tempo in aeroporto che in chiesa?". Spero che sarà non solo un rimprovero, ma anche un modo per ricevere il perdono dei miei peccati. Viaggiare è una necessità per me: incontrare anche fisicamente i sacerdoti della Fraternità. Nel tempo è diminuita la curiosità di vedere posti nuovi, ma mi è rimasto vivo il desiderio di incontrare, accompagnare e sostenere questi miei fratelli. Per 4-5 anni ho in programma di continuare, visitando tutte le comunità; poi saranno altri a viaggiare al posto mio".