Famiglia Cristiana n° 44 - ottobre 2005

IL CROCIFISSO CHE L'ARTISTA REGALò A PADRE BERARDI

L'EX VOTO DI SALVADOR DALÌ

Prime ipotesi su un'opera d'arte che, forse, il padre del surrealismo realizzò in una crisi profonda dell'anima, attratto e respinto da quel Dio inchiodato alla croce.

Se la notizia fosse vera, segnerebbe un passaggio importante, costituirebbe una testimonianza eccezionale e inedita del percorso artistico e spirituale di Salvador Dalí , il grande pittore catalano fondatore del surrealismo. A Roma, tra gli oggetti personali di padre Gabriele Maria Berardi, dei Servi di Maria, sacerdote marchigiano amico dell'artista, sarebbe stato infatti rinvenuto un crocifisso di filo di ferro e legno che lo stesso Dalí avrebbe donato al frate come ringraziamento per un esorcismo.

Ma c'è di più. Secondo il critico d'arte Armando Ginesi, che ha esaminato il crocifisso (che si trova nel caveau di una banca) "esistono più che sufficienti motivazioni stilistiche per affermare che l'opera plastica sia stata realizzata dallo stesso Salvador Dalí ". L'incontro tra il carismatico frate e l'eccentrico artista potrebbe essere avvenuto in Francia, nell'immediato dopoguerra, dove padre Gabriele si sarebbe rifugiato dopo essere stato momentaneamente sospeso dalle sue funzioni sacerdotali per non avere, sembra, potuto onorare impegni finanziari presi per realizzare opere di carità; o potrebbe essere anche avvenuto in Italia, dove Dalí nel 1949 fu addirittura ricevuto in udienza da papa Pio XII.

In effetti quegli anni, al ritorno da un lungo periodo negli Stati Uniti, rappresentarono per Dalí una svolta importante, che lo allontanava dal surrealismo per avvicinarlo a un misticismo nucleare, cosmico e allucinogeno (ispirato anche dalla bomba di Hiroshima), secondo un processo di atomizzazione della materia.

L'idea di un pazzo o di un genio. E come tutti i pazzi (e i geni) Dalí si era certamente spinto troppo in là, come ci testimoniano le stesse sue parole: "Il Cielo, ecco quello che la mia anima ebbra d'Assoluto ha cercato durante tutta la mia vita e che a certuno è potuta sembrare confusa e, per dirla tutta, profumata dallo zolfo del demonio (…) Ora io non ho ancora la fede e temo di morire senza il Cielo".

Uno dei motivi per cui Dalí si era recato da Pio XII con la sua Madonna di Porta Lligat, che ha il volto di Gala, musa e compagna di tutta la sua vita (in realtà moglie del poeta Paul Éluard), era quello di ottenere la possibilità di sposarla. L'artista incontrerà anche Giovanni XXIII due volte, nel 1959 e nel 1963, ed è probabile che a Roma abbia rivisto anche l'amico frate Berardi, che intanto aveva ripreso le sue funzioni sacerdotali ed era noto per l'ascetismo e le opere di carità.

Fin qui i fatti, reali o presunti. Ma la vera notizia è questa immagine che ci sta davanti, di una sconvolgente e indicibile espressività. In attesa di poterla esaminare meglio, magari di persona, non si può restare indifferenti a questo Cristo, forse ai limiti del blasfemo, certo; ma non fu uno scandalo anche la sua passione e la sua croce? Dal punto di vista della storia dell'arte questa immagine richiama la brutale espressività del Cristo di Grünewald, di cui potrebbe persino sembrare un'interpretazione in chiave moderna. Cosa possibile per Dalí , che conosceva esattamente questa immagine, e da cui però prendeva esplicitamente le distanze in un suo scritto.

Un Cristo "bello come Dio"

Nel Manifesto mistico del 1951, infatti, parlando di uno dei suoi crocifissi più famosi, il Cristo di san Giovanni della croce, Dalí scrive: "Voglio dipingere un Cristo che sia, in tutti i sensi, l'esatto opposto del Cristo materialista e brutalmente antimistico di Grünewald". Dalí desiderava togliere ogni elemento di bruttezza per dipingere un Cristo - come scrive egli stesso - "bello come il Dio quale egli è". Per quel Cristo, vivo, bello, visto dall'alto, senza i segni della passione, si era comunque ispirato al Crocifisso (sanguinante e contorto) disegnato tre secoli prima da san Giovanni della Croce (visionario e spagnolo come lui) in uno stato di estasi.

A questo punto si può immaginare (se questa scultura trovata a Roma è davvero sua) che Dalí visse anch'egli una sua "notte dell'anima", in qualche modo simile a quella di san Giovanni della Croce. Un momento di buio profondo, di tentazione, attrazione e ripulsa per quel Dio inchiodato alla croce, negazione di ogni piacere e di ogni bellezza. Forse Dalí combatté da vero artista una battaglia "per" e "contro" l'Uomo della Croce, lo contorse nel filo di ferro, lo inchiodò a una croce posticcia, ne confuse capelli e corona di spine in un groviglio inestricabile. Colse insomma l'ossimoro, il contrasto, il paradosso, l'essenza di quella bellezza crocifissa "che salverà il mondo" (Dostoevskij).

Lottando come Giacobbe con l'angelo, stretto a lui in un abbraccio mortale, Dalí ne uscì salvo. Ottenne liberazione e benedizione. Rinacque alla fede e poté dipingere il suo capolavoro, il Cristo di san Giovanni della Croce. Il 19 ottobre 1949 Dalí tenne una conferenza all'Ateneu Barcellona dal titolo per noi significativo - Perché ero sacrilego e ora sono mistico - in cui spiegò alcuni episodi della sua vita in relazione al misticismo spagnolo di san Giovanni della Croce (contemporaneo di santa Teresa d'Avila) e del pittore Francisco Zurbarán.

Duello tra vita e morte

Se dal punto di vista dell'iconografia daliniana questo crocifisso di 60 centimetri di altezza per 30 di larghezza rappresenta un unicum - e forse sarebbe più giusto considerarlo un vero e proprio ex voto -, dal punto di vista estetico rappresenta insieme morte e risurrezione. Il corpo si stacca nettamente dalla croce (che ha il colore della morte) come un "folle inebriato" che ha i colori della vita: il rosa intenso della carne, il bianco del perizoma, persino il rosso vivo e gioioso del sangue e l'arancio acceso dei capelli. Un sacerdote amico, da me interpellato, ha visto nell'aureola un'ostia e nel corpo centrale della croce un calice, e ciò può essere vero: la croce richiama un oggetto liturgico.

Il critico d'arte Ginesi, l'unico che ha avuto tra le mani l'opera, ha anch'egli sottolineato in questo Cristo "una pietà filtrata da un senso del paradossale: mentre la figura rappresenta la morte e la sofferenza che l'hanno preceduta, il colore chiaro di Dio (che spicca sul marrone scuro della croce) sembra alludere alla positività e dunque alla vita".