Marzo 2025
Pubblicato su Nuova Secondaria – n. 7, marzo 2025 - anno XLII - Studium
Arte e Giubilei: il cantiere infinito

Andrea Bonaiuti, Veronica (insegna di pellegrinaggio dipinta), part., Trionfo della Chiesa, affresco, 1366-1367, Cappellone degli Spagnoli Firenze Santa Maria Novella
I Giubilei hanno sempre rappresentato un’occasione unica per il rinnovamento artistico e architettonico di Roma. L’articolo esamina come ogni Anno Santo abbia lasciato un segno tangibile sulla città, attra verso committenze artistiche che hanno coinvolto i più grandi maestri dell’arte sacra. Si analizza l’evoluzione del linguaggio visivo e iconografico legato all’evento, dalle prime rappresentazioni medievali fino alla grande stagione barocca.
«Non abbiamo quaggiù una stabile dimora» (Ebrei 13,14). L’homo viator – il pellegrino del Medioevo – si metteva in cammino desideroso di salvezza. «Il tuo Volto, Signore io cerco», canta il salmo 26. Non una generica ricerca di salvezza, ma il desiderio di vedere il Volto di Dio, volto del perdono e della misericordia. Vederlo nei “segni” che la storia del cristianesimo ha lasciato: a Gerusalemme il Santo Sepolcro, a Roma le reliquie della Passione, la tomba di san Pietro, degli apostoli e dei martiri. Ma soprattutto vedere il santo sudario che, secondo la tradizione, Gesù donò sul Calvario alla Veronica con impressi i tratti del suo volto sfigurato dal dolore. Immagine «non fatta da mano d’uomo» (acheropita), la cui presenza nella Roma cristiana è documentata già intorno all’anno 702.
Ma quali erano i tratti distintivi dei pellegrini, questi “innamorati di Dio” che attraversano l’Europa medioevale – da Canterbury alla Terra Santa, da Santiago di Compostella a Roma – rischiando la vita per vedere il Volto Santo o per toccare una reliquia dei santi? Le fattezze dei pellegrini possiamo ricercarle lungo la via Francigena o sulla via Romea, nelle sculture dei portali, così come negli affreschi e nelle vetrate delle chiese, o anche nelle miniature delle cronache dell’epoca. A Fidenza, tappa obbligata per chi percorra la via Francigena, sul lato destro del campanile di san Donnino, nell’architrave scolpita da Benedetto Antelami tra il 1180 e il 1190, una lunga, suggestiva teoria di pellegrini si distingue per il cappuccio, la bisaccia e il bastone. Pellegrini di pietra che accompagnano idealmente i veri pellegrini, quelli che scendevano la penisola verso Santa Maria di Leuca, attraversavano il mare, approdavano in Terra Santa. Nella loro primitiva essenzialità, queste sculture esprimono la gioia di chi è in cammino verso qualche cosa di più grande del cammino stesso, verso Dio. La fluidità delle pieghe dei mantelli, tipica della scultura romanica (e di derivazione bizantina), è un motivo che si ripete e indica movimento, dinamicità, tensione.
Una miniatura francese del XIV secolo, dal raffinato disegno e dai vivaci colori, tratta da il Liber Pelegrinationes (Parigi Biblioteca Nazionale), mostra davanti al Santo Sepolcro di Gerusalemme un gruppo di pellegrini francesi, ricchi e ben vestiti. Nonostante il clima fiabesco, tipico delle miniature d’oltralpe, alcune minacciose guardie turche, armate di arco e scimitarre, impediscono ai pellegrini il passaggio, costringendoli a pagare un tributo. Per la difficoltà di raggiungere Gerusalemme, conquistata dal Saladino nel 1187, sarà proprio la reliquia della Veronica, insieme ai chiodi e al legno della santa croce, a fare di Roma la nuova ambita meta giubilare. Così nel 1208 papa Innocenzo III concederà l’indulgenza plenaria a chi pregherà davanti all’immagine del Santo Volto in san Pietro, la «Veronica romana». Questa veneratissima reliquia ogni Venerdì Santo veniva portata in processione dalla basilica petrina al santuario di Santo Spirito in Sassia. Lo stesso Dante Alighieri, che aveva “sete” di vedere la «Veronica nostra», scrive:
[…] colui che forse di Croazia / viene a veder la Veronica nostra, / che per l’antica fame non sen sazia, ma dice nel pensier, fin che si mostra: / «Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, / or fu sì fatta la sembianza vostra?». [Par. XXXI 103-108]
Questa “sete” di Dante, la stessa che spingeva i pellegrini dalla Croazia a venire in Italia per vedere «la sembianza vostra», cioè il volto sofferente del Signore, fa di questa icona l’immagine-simbolo più ambita e amata dai pellegrini che la portano con orgoglio sul petto o sul cappello come una spilla, un’effigie, un distintivo e quasi un lasciapassare. L’icona del Santo Volto detto «della Veronica romana» si ricollega a varie immagini misteriosamente impresse su un telo, fazzoletto o asciugamano: il Mandylion nelle sue varie origine: di Camulia, di Edessa, di Genova, di Laon, fino ad arrivare al velo di Manoppello. Sono immagini di origine non umana, bensì “rivelata” al modo delle Scritture.
Da questi “tipi” iconografici si dipana, sia in Oriente che in Occidente, una lunghissima filiera di copie realizzate da monaci, spesso anonimi, ma anche da artisti come Beato Angelico con il suo Cristo coronato di spine (Livorno) e Antonello da Messina con il Salvator Mundi (Londra). Straziante il Santo Volto dell’Angelico; coperto di sangue, mistico quello di Antonello da Messina, caratterizzato da uno sfumato che sembra quasi anticipare la pittura di Leonardo da Vinci. Comunque sia, colpisce il fatto che queste immagini sembrano tutte misteriosamente rimandare a un unico Prototipo. Un gruppo di studiosi ha provato a tracciare sulla carta d’Europa la geografia di questi Volti, la loro diffusione sui pilastri dei crocevia, nelle cappelle votive, nelle piccole chiese di campagna e sui portali delle cattedrali. Sculture, affreschi, dipinti su tavola che sembrano indicare ai pellegrini la strada verso quell’unico Santo Volto. Fino a disegnare, ai nostri giorni, una vera e propria “Veronica route”. (https://veronicaroute.com/)
Un altro tema iconografico tipicamente giubilare e che caratterizza l’arte medioevale è quello del Giudizio Uni versale. Non si tratta di un argomento storico, legato al tempo e allo spazio, ma ad un cammino spirituale, escatologico, che segna i primi passi dell’homo viator verso l’aldilà. In Borgogna, ad Autun, davanti al portale ovest della cattedrale di Saint Lazare (secolo XII), tra le figure scolpite in cammino verso Cristo, giudice supremo, alcuni pellegrini si distinguono per le croci sulle bisacce. Il richiamo alla salvezza dell’anima e al giudizio finale è caratteristico di tutta la mentalità medioevale, impregnata dal senso del peccato, della morte e del giudizio. Per questo ci si mette in cammino, per ottenere il perdono e l’indulgenza. Nella controfacciata delle chiese romaniche e gotiche non manca mai il grandioso affresco del Giudizio Universale, che ricorda ai fedeli che escono dalla messa domenicale la realtà dei Novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso. Si pensi al Giudizio universale di Giotto e, due secoli dopo, a quello di Michelangelo sulla parete della Sistina.
Nel periodo della cattività avignonese, in cui papa Clemente VI indice il Giubileo del 1350 esilio da Roma (rientrerà nel 1377), la città di Firenze tiene alta l’idea del primato petrino facendo realizzare in Santa Maria Novella (Cappellone degli Spagnoli) dal pittore Andrea di Bonaiuto (1366-1367) un grande affresco sulla Chiesa trionfante. Questo affresco regala al visitatore quella che potremmo chiamare l’”istantanea” più bella e curiosa, il vero e proprio “album di famiglia” dei pellegrini: quattro vivacissimi ritratti di viandanti, in ginocchio, vestiti con la caratteristica mantellina ma molto ben curati, con i caratteristici copricapi e i bastoni da viaggio. Pellegrini romei vestiti a festa e che partecipano idealmente al grande simposio della Chiesa militante e trionfante, rappresentata sul fondo dal profilo del duomo fiorentino di Santa Maria Novella. In particolare colpisce l’immagine dell’uomo vestito di una rozza pelliccia (che richiama l’iconografia dei santi penitenti Giovanni Battista e Maddalena) e porta sul cappello (petaso), ricoperto come per una parata dai distintivi del pellegrino; si tratta di piccole immagini, fuse nel piombo o nello stagno, con impressa l’effigie dei santi Pietro e Paolo (quadrangulae), oppure le chiavi incrociate (simbolo petrino), la conchiglia di Santiago e l’immancabile Volto Santo.
È tanto forte l’influsso della peregrinatio sull’arte cristiana che, curiosamente, alcuni artisti arrivano a confondere o forse volutamente a rappresentare i discepoli di Emmaus come pellegrini medioevali. In un avorio spagnolo del XII secolo i due discepoli di Emmaus portano sulle bisacce il segno della croce e tra le mani il bordone (bastone da viaggio) con appesa la tipica zucca del viandante. Nella sua versione londinese dei Discepoli di Emmaus (1601), Caravaggio rappresenta sul petto del discepolo più anziano una candida conchiglia di Compostella.
Ma quanto i Giubilei hanno davvero influenzato il corso dell’arte cristiana? Se secondo lo storico dell’arte Claudio Strinati, almeno nel Medioevo non c’è stato un influsso diretto giubilei-arte, è però evidente che Bonifacio VIII, proclamando il grande Giubileo del 1300, inaugurava un cantiere infinito, una stagione artistica che avrà come culmine nel ‘500 la fabbrica di San Pietro e nel ‘600 le scenografiche piazze della Roma barocca. Piazze, fontane, nuovi edifici in cui antichità e cristianesimo trovano sintesi geniale. Confluiranno a Roma i migliori architetti come Bramante, Raffaello, Michelangelo, Bernini e Borromini. Dalle anonime maestranze medioevali, fatte di esperti mosaicisti, frescanti e scalpellini, ai grandi geni del Rinascimento, Roma e i Giubilei saranno il centro propulsore del cammino dell’arte occidentale, da Cavallini a Giotto, dall’Angelico a Buonarroti, e fino a Caravaggio.
Durante i Giubilei le quattro basiliche romane maggiori (San Giovanni in Laterano, San Pietro, Santa Maria Maggiore e San Paolo fuori le Mura) si arricchiscono di opere d’arte e il fenomeno si estende alle altre basiliche minori – le cosiddette «sette chiese» – coinvolte nel percorso devozionale che il buon pellegrino compie per ottenere l’indulgenza. San Filippo Neri nel 1552 istituzionalizza e rafforza questa pratica devozionale già in uso nel Medioevo e che comprende nel percorso altre tre chiese: Santa Maria Nuova, Santa Croce in Gerusalemme, San Sebastiano. A proposito di quest’ultima basilica, che si trova fuori dalle mura aureliane, una tavola dipinta a olio, “Pellegrini alla tomba di san Sebastiano” di Jesse Leferinxe (1493-1508), illustra la presenza di ciechi, storpi, malati sulle tombe dei santi apostoli e martiri, per ottenere la guarigione.Giubilei come speranza di guarigione. Toccare le sante reliquie o anche solo i marmi che le contengono è un po’ come immedesimarsi nel paralitico della piscina probatica del Vangelo di Giovanni (5,7). L’afflusso dei pellegrini alle catacombe di san Sebastiano testimonia come gli ipogei funebri fossero una delle mete predilette del pellegrinaggio religioso. Come avviene anche oggi, chi viene a Roma visita non solo la tomba di san Pietro ma anche le catacombe dei martiri e dei santi.
La Firenze medicea risulta una vera e propria fucina artistica da cui escono i migliori architetti, artisti e scultori che saranno chiamati dai pontefici rinascimentali a rivestire di bellezza la Roma dei Giubilei. Tra i fiorentini, Dante e Giotto sono presenti al Giubileo del 1300. Sulla facciata della basilica di San Giovanni in Laterano, Giotto rappresenta in un grande affresco in gran parte perduto il pontefice Bonifacio VIII nell’atto di benedire la folla giubilare. Di quest’opera resta solo un frammento conservato su un altare all’interno del Laterano.
Secondo una suggestiva intuizione di Carlo Ossola («Sole 24 ore», febbraio 2004) Dante Alighieri, trovandosi in Santa Maria Maggiore, davanti al mosaico dell’Assunta di Jacopo Turriti da poco terminato in vista del Giubileo, forse trovò ispirazione per il suo Inno alla Vergine del XXXIII canto del Paradiso. La bizantina Dormitio Viriginis, l’animula di Maria bambina in fasce e tra le braccia del Figlio, può aver ispirato quel verso: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio». Pura teologia in poesia. Un secolo dopo Masolino e Masaccio sono chiamati a Roma nel1428 per affrescare Il Trittico della Neve per Santa Maria Maggiore, un’opera chiave per capire il ruolo di Roma, capitale dell’arte e della fede. Nella grande tavola papa Liberio (IV secolo) traccia il perimetro di Santa Maria Maggiore sulla neve da poco scesa miracolosamente nella notte tra il 4 e 5 agosto del 358 d.C. Si tratta di un gesto antico e simbolico, che richiama quello di Romolo che segna con l’aratro il perimetro di Roma. Un gesto fondativo che consacra Roma in tutta la sua grandezza.
Intanto la Roma rinascimentale e poi barocca si arricchisce di splendidi scenari architettonici come piazza Navona, Piazza del Popolo, Trinità dei Monti e la Fontana di Trevi. La città diventa un teatro all’aperto, una culla di cultura sacra e profana insieme, che richiama una folla incontenibile di pellegrini, oramai sempre più simili a turisti moderni in cerca di curiosità ed emozioni. Proliferano guide e cartine per visitare Roma, sull’esempio dell’antico manoscritto medioevale Miriabilia Urbis Romae. E nel ‘700 si diffondono le splendide incisioni di G.B Piranesi, maestrali vedute architettoniche ma che nello stesso tempo anticipano le cartoline illustrate. L’afflusso continuo di pellegrini porta la Città Eterna a sviluppare piani urbanistici, nuovi ponti sul Tevere, nuovi servizi di accoglienza, nuove misure di ordine pubblico. E Roma diventa un modello ideale, una “Città del Sole”. Dopo Masolino e Masaccio, Eugenio IV chiama a Roma nel 1445 il domenicano Beato Angelico, del convento di San Marco a Firenze, per affidargli gli affreschi della Cappella del Sacramento, nel Palazzo Apostolico, più nota come Cappella Niccolina dal nome di papa Niccolò V che proclamerà il Giubileo del 1450. Si tratta di sette affreschi con episodi della vita dei santi Stefano e Lorenzo. Il Beato Angelico rappresenta Stefano a Gerusalemme mentre distribuisce l’elemosina ai poveri. Parallelamente, a Roma Lorenzo riceve il diaconato. È sufficiente fermare lo sguardo sul calice e la patena d’oro che san Pietro consegna al diacono Stefano, per cogliere tutto il fascino della liturgia romana e del culto cattolico dell’Eucarestia. Ancora una volta Firenze e Roma si incontrano, attraverso il pennello di un frate domenicano, il Beato Angelico, che morirà proprio a Roma il 18 febbraio del 1455 e verrà beatificato da Giovanni Paolo II nel 1982.
Michelangelo Buonarroti nasce nel 1475, esattamente l’anno del Giubileo di Sisto IV. Nella sua lunga vita l’artista fiorentino vedrà altri due Giubilei, quello di Alessandro VI del 1500 e quello del 1550 di Giulio II. Un anno prima Paolo III aveva nominato Michelangelo architetto a vita della Basilica Vaticana. Le cronache raccontano che, durante il Giubileo del 1500, Giorgio Vasari e Michelangelo Buonarroti, per ottenere l’indulgenza plenaria, furono visti percorrere insieme a cavallo l’itinerario delle sette chiese (circa 22 chilometri odierni) discutendo animatamente di arte, tema su cui divergevano in molti punti. Tre anni prima Michelangelo, appena venticinquenne, aveva scolpito il suo capolavoro assoluto, la Pietà Vaticana, una delle immagini più amate dai pellegrini romani. Qualche anno dopo, affronterà la Cappella Sistina, il grandioso affresco, voluto da Giulio II, il grido artistico più alto di Michelangelo. Lo ricorda Giovanni Paolo II nella sua raccolta di poesia Trittico romano: “E proprio qui, ai piedi di questa stupenda policromia sistina si riuniscono i cardinali una comunità responsabile per il lascito delle chiavi del Regno. E Michelangelo li avvolge, tuttora, della sua visione”.
La Chiesa tridentina promuove in difesa del depositum fidei, una vera e propria “teologia delle immagini”. Antico e Nuovo Testamento vengono saldamente ricuciti dallo strappo protestante. Le parole di sant’Agostino sono il manifesto di questa ritrovata unità: «Il Nuovo Testamento è nascosto nell'Antico, l’Antico nel Nuovo è manifesto». Tutto ciò apre all’arte nuovi orizzonti anche attraverso quei manuali iconografici ad uso degli artisti che sono le Bibliae pauperum, che con l’avvento della stampa sono diffuse in tutta Europa.
In pieno clima controriformistico, Michelangelo riceve dure critiche agli affreschi della Sistina per i suoi nudi. Le proteste e le denunce dei suoi detrattori arrivano a Trento, ai padri conciliari, ma Michelangelo a Roma può continuare a lavorare, godendo dell’appoggio di papa Paolo III che gli affida nel 1546 il cantiere della nuova Fabbrica di San Pietro. Tra il 1542 e il 1550 (anno del Giubileo di Giulio III), Michelangelo affresca la cappella Paolina con due temi fondativi sulla continuità apostolica romana: la Conversione di san Paolo e il Martirio di san Pietro. Nello stesso anno Giorgio Vasari affresca la cappella Del Monte in San Pietro, conclusa l’anno seguente. Negli stessi anni Daniele da Volterra realizza per Trinità dei Monti due grandi tele: La deposizione di Cristo (1545) e l’Assunzione della Vergine (1550), capolavori del manierismo post-michelangiolesco.
Con il concilio di Trento (1545-1563) l’arte religiosa vive una grande stagione al servizio della Chiesa, in piena aderenza alla liturgia, ai testi sacri e alla teologia. Lutero combatte il culto dei santi e delle loro immagini e la Chiesa risponde con una sollecitudine nuova, utilizzando l’arte in funzione apologetica. Nel 1577 l’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo nelle sue Istruzioni intorno alla fabbrica ed alla suppellettile ecclesiastica dà indicazioni su ciò che riguarda l’edilizia ecclesiastica, la decorazione iconografica, la cura e la preziosità degli arredi sacri. Nel 1582 l’arcivescovo di Bologna Gabriele Pallotti, nel suo “Discorso intorno alle immagini sacre e profane”, promuove l’arte come strumento di catechesi, un’arte sacra più popolare, meno celebrativa e più tendente al realismo, e che troverà un’eco – una risposta tanto sorprendente quanto inattesa – nelle opere di un artista formidabile come Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio.
Proprio Caravaggio, in vista del Giubileo del 1600 e del grande afflusso previsto a Roma di pellegrini di lingua francese, riceve da papa Clemente VIII l’incarico di raccontare, nella cappella di San Luigi dei Francesi, la vita e le opere dell’evangelista Matteo. Lo farà con tre grandi tele che sfidano tutta l’arte precedente: la Chiamata, la Vocazione e il Martirio di san Matteo. Nella Chiamata, recenti ricerche radiografiche hanno dimostrato che, dietro a Gesù, l’immagine di san Pietro – il pescatore di Galilea, il principe degli Apostoli e primo papa – è stata aggiunta da Caravaggio in un secondo momento. In origine la presenza di Pietro non era prevista. Evidentemente il cattolico Caravaggio aveva pensato (o qualcuno lo avevo indotto a pensare) che «senza la Chiesa non c’è salvezza». Pochi anni dopo l’artista dipinge per Santa Maria del Popolo la Conversione di san Paolo e il Martirio di san Pietro, omaggio ai due apostoli “colonne” della Chiesa.
A proposito di pellegrini, del Caravaggio non si può dimenticare la splendida Madonna dei pellegrini che si trova nella basilica romana di Sant’Agostino. Due imploranti straccioni, in ginocchio sulla soglia della casa di Maria, sono forse i più poveri tra i milioni di pellegrini che si riversavano a Roma per ottenere l’indulgenza. Ma più che pellegrini sembrano cittadini romani, parte integrante di quel suburbio tanto frequentato da Caravaggio. Palco di un teatro profano, fatto di quinte di muri sbrecciati e di vicoli malfamati in cui Caravaggio ambienta le sue scene sacre, una contro-città, lontana dalle eleganti scenografie barocche della Roma ufficiale.
Così i “questuanti” della Madonna di Sant’Agostino diventano gli anti-pellegrini di un Giubileo quotidiano di povertà romane, fatto di uomini e donne che non osano rivolgersi al Papa e si affidano alla Mamma di tutti i papi e di tutte le chiese. Piovono sulla Madonna dei pellegrini le critiche del Baglione e del Bellori. Difficile accettare quella popolana con il suo Bambino, messa lì quasi per caso sull’uscio sgangherato di una casa, “Madonna romana” bellissima e che forse assomiglia a Lena o a un’altra delle donne perdute frequentate da Caravaggio. Bisogna riconoscere al rivoluzionario pittore lombardo il merito di aver portato alla ribalta –nella capitale dell’arte e dei Giubilei – l’epopea dei poveri e degli straccioni. Una sensibilità, quella caravaggesca, in sintonia con papa Clemente VIII, che proprio nel Giubileo del 1600 (in quell’anno Caravaggio sta dipingendo la cappella Cerasi) sale in ginocchio la Scala Santa in segno di penitenza, serve a tavola i pellegrini, mangia con i più poveri e consegna loro cinquecento coperte fornite da un gruppo di ebrei romani.
Caravaggio apre l’arte al mondo umile. E rappresentando la Madonna Assunta nelle vesti di una prostituta annegata nel Tevere (Morte della Vergine, 1604) ricorda alla cristianità le parole di Gesù: «Ladri e prostitute vi precederanno nel regno dei cieli» (Matteo 21,31). Condannato a morte in contumacia per aver ucciso un uomo durante un duello, negli ultimi anni della sua vita Caravaggio è costretto a dipingere e a fuggire in continuazione tra Napoli, Malta, la Sicilia, le coste romane e la Toscana. Pure in queste fughe rocambolesche, inseguito dalle guardie pontificie, Caravaggio realizza opere di un cristianesimo nuovo, che va oltre la Controriforma, traghettando l’arte nell’età moderna. Forse, senza volerlo, Caravaggio ha rovesciato la storia dell’arte e dei Giubilei. Sposta l’asse dell’indulgenza romana alle periferie. Riceve il perdono e i sacramenti in punto di morte, lontano da Roma, assistito dalla confraternita della Santa Croce di Porto Ercole, sull’Argentario, in provincia di Grosseto. L’essere rimasto fino alla fine sulla soglia della Roma papale in attesa del perdono (che pure sarebbe arrivato) fanno di Caravaggio un pellegrino della Città di Dio.
Il legame tra l’arte e la Chiesa si rompe necessariamente con l’esilio del papa a Gaeta che estende per necessità l’indulgenza plenaria da Roma alle varie realtà locali. Pure una nuova grande arte cristiana risorge come un fiume carsico. Basti pensare a Georges Rouault (1871-1958) con le sue vetrate e con il suo Volto Santo, che per originalità e insieme fedeltà alla tradizione può essere considerato il vero Volto di Cristo del Novecento. Lo strappo tra l’arte e la Chiesa deve essere ricucito. Lo tentano Paolo VI con il suo Messaggio agli artisti (1965); e Giovanni Paolo II che con la sua Lettera agli artisti (1999) che rinsalda il patto con il mondo dell’arte, nel segno della bellezza dostoevskiana. Una “bellezza crocifissa” di cui sono interpreti due artisti come Marc Chagall e Salvador Dalì. I loro crocifissi sono stati scelti ed esposti dalla Chiesa di Roma come immagini guida all’inizio del Giubileo 2025 dedicato alla speranza. La Crocifissione bianca di Marc Chagall; e il Crocifisso di san Giovanni della Croce. Non è stato un gesto da poco. Non si può infine concludere questo viaggio nel “cantiere infinito” dell’arte e della fede senza le parole che papa Francesco pronunciò nel 2004 rivolgendosi alla Vergine Immacolata: “Madre nostra, Roma si prepara a un nuovo Giubileo. Ci sono cantieri nuovi e questo provoca non pochi disagi, Eppure è segno che Roma è viva, E mi sembra di sentire la tua voce che con saggezza ci dice: «Figli miei, vanno bene questi lavori, ma state attenti: non dimenticate i cantieri dell’anima! Il vero Giubileo è i vostri cuori».
Riferimenti bibliografici Alfredo Tradigo Università di XXX Dell’aprire e serrare la Porta Santa. Storie e immagini della Roma degli Anni Santi, Biblioteca Vallicelliana, Roma 1997-1998. Romei e Giubilei. Il pellegrinaggio medievale a san Pietro (350-1350), Electa, Milano1999. I Giubilei. Roma, il sogno dei pellegrini, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze 1999. Roma barocca. Bernini, Borromini, Pietro da Cortona, Electa, Milano 2006. La basilica di San Pietro. Fortuna e immagine, Gangemi, Roma 2012.