Luoghi dell'Infinito / Avvenire - gennaio 2012

Fede e nobiltà negli affreschi rinascimentali che ornano la chiesa del monastero Maggiore benedettino

SAN MAURIZIO, LA SISTINA A MILANO

Si è concluso dopo venticinque anni il restauro del più bello ed esteso ciclo di affreschi del ‘500 lombardo. Diecimila metri quadrati di pareti interamente decorate nell'interno della chiesa di san Maurizio, collegata all'ex monastero maggiore benedettino di corso Magenta, nel cuore di Milano, a due passi dall'Università Cattolica e da sant'Ambrogio. Durante i lavori sono stati almeno 250mila i visitatori che hanno potuto ammirare gli affreschi tra i ponteggi. E oggi, finalmente liberi da impedimenti, tutti possono gustare l'oro ritrovato sull'intreccio delle volte, il blu intenso del finto cielo, le sante affrescate coi volti della nobiltà milanese che guardavano (e invitavano con il loro esempio) le monache e i fedeli a pregare. E poi gli episodi della Passione di Cristo e le immagini di san Maurizio e dei martiri dei primi secoli cristiani.

Tra i vari artefici di questi affreschi spicca un nome: Bernardino Luini (1481-1532). Siamo nella Milano del 1522 e il pittore varesino, originario di Dumenza, mentre saliva sui ponteggi della chiesa di san Maurizio per raccontare il martirio dell'eroe cristiano, non poteva non avere negli occhi la straordinaria lezione dell'Ultima Cena di Leonardo, il grande affresco che stava purtroppo ormai già deteriorandosi lì vicino, sul muro del Cenacolo dei domenicani di Santa Maria delle Grazie.

Oggi, entrando in san Maurizio, l'immagine del santo martire che offre il capo alla spada del carnefice (riquadro in alto a sinistra sulla parete di fondo) richiama a uno scampolo di pittura leonardesca: la stessa dolcezza dello sfumato del volto di Gesù e di Giovanni nell'Ultima Cena, gli stessi colori delle vesti (il rosso e il blu). La stessa luce – una luce spirituale e morale – accarezza il nobile volto del soldato romano che sta per essere decapitato insieme con la sua legione tebana per aver rifiutato di eseguire gli ordini dell'imperatore Massimiano. Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. E, sulla stessa parete–iconostasi che divide il coro delle monache dall'aula destinata ai fedeli, nel riquadro di destra san Sigismondo, re dei Burgundi, prima di essere a sua volta decapitato, offre a Maurizio il modellino della chiesa del monastero di Agaunia, così simile alla chiesa milanese di san Celso.

Il rinascimento lombardo – innestato nel medioevo su base romana e cristiana – trovano una sintesi originale in questo luogo: la chiesa, i chiostri, le mura romane. L'ampiezza del coro ligneo cinquecentesco di san Maurizio dimostra la presenza, a quei tempi, di un centinaio di monache; i tre chiostri, due attigui alla chiesa (oggi sede del Museo archeologico) e un terzo dall'altro lato di via Luini, suggeriscono la vastità dei possedimenti benedettini che si estendevano con i loro orti e le vigne (vedi l'attuale via Vigna) oltre le mura fatte costruire dall'imperatore Massimiano nel III secolo d. C. Le due torri romane furono poi rimaneggiate in età medioevale: quella quadrata, da cui partivano le corse dell'ippodromo (fino all'attuale via Circo) è diventata il campanile di san Maurizio; l'altra, ottagonale, che porta il nome del vescovo milanese Ansperto, conserva al suo interno affreschi di santi molto suggestivi.

La chiesa di San Maurizio subì alcune modifiche a causa della Riforma cattolica introdotta a Milano da san Carlo Borromeo: per accentuare l'isolamento claustrale, l'apertura a volta fu ridotta alla grata ora visibile sopra l'altare sovrastata dal quadrone con l'Adorazione dei Magi di Antonio Campi (1578). L'altare fu rialzato e ciò consentiva alle monache di vedere il sacerdote dire la Messa ma non i fedeli, mentre due finestrelle laterali inquadrate da immagini sacre consentivano di ricevere la comunione.

Gli affreschi di san Maurizio risultano perfettamente inseriti in un complesso programma iconografico di grande impatto scenografico, che ci trasporta nella vita culturale, religiosa e politica (ma anche nel costume e nella moda) della Milano del primo 500, dominata dalle grandi famiglie legate agli Sforza. In particolare i Bentivoglio, principali committenti della chiesa, amavano farsi ritrarre negli affreschi in atteggiamento di preghiera o come testimoni di episodi evangelici.

Possiamo immaginare le belle dame riccamente vestite e le altrettanto nobili monache affacciarsi o deambulare nell'alta luminosa loggia del matroneo. E possiamo ascoltare anche oggi la musica dell'organo – uno splendido Antegnati (attualmente in restauro le ante) – diffondersi sotto la volta a botte che la recente pulitura ha reso simile a una pergola dorata il cui disegno, a nervature gotiche, richiama quello delle volte del Duomo di Milano. Anche la timbrica dell'organo è simile a quella dell'organo del Duomo, costruito dallo stesso Gian Giacomo Antegnati, organaro bresciano, una decina d'anni dopo quello di san Maurizio.

Tra musica e poesia, arte e liturgia, lo sguardo è irresistibilmente attratto dalla luce che scende dal matroneo composto da un arioso loggiato a serliana: una serie ininterrotta di archi a tutto sesto affiancati da due architravi che formano due aperture quadrate decorate di stucchi e medaglioni coi volti dei santi benedettini: Scolastica, Mauro, Placido, Benedetto. La luce dell'architettura rinascimentale scende e si ferma nei volti affrescati delle nobildonne lombarde che prestano la loro bellezza – e le fruscianti stoffe delle vesti preziose – alle sante protettrici Agnese, Cecilia, Caterina, Apollonia, Lucia. La stessa abbadessa del monastero è stata per lungo tempo Alessandra (al secolo Bianca), nata dal matrimonio tra Alessandro Bentivoglio e Ippolita Sforza. Si capisce allora quale importanza avesse la committenza dei Bentivoglio rappresentati sulla parete di fondo: Alessandro con la pelliccia sulle spalle, in ginocchio tra i santi Stefano, Benedetto e Giovanni Battista; e Ippolita, con una veste bianca trapuntata d'oro, in preghiera tra le sante Agnese, Scolastica e Caterina.

Nell'affresco della Deposizione di Cristo è presente ancora Alessandro a indicare una commistione – ma anche una contemporaneità che oggi si è persa – tra fede e vita. Nella Sepoltura di Cristo tra i testimoni appare un nobile in pelliccia e una suora, ma la figura più affascinante è quella della Maddalena, bella e commossa, avvolta nel ricco mantello a motivi dorati; la ritroviamo nel Noli me tangere ancora più splendida, vestita d'oro e broccato, il profilo perfetto del volto teso al Cristo risorto.

Quanta distanza tra questo Cristo – che Maddalena scambia per un giardiniere – e quello rappresentato da Luini oltraggiato e deriso, legato alla colonna (cappella Besozzi) o caduto sotto il peso della croce. Luini cantore della verità e della dolcezza del Cristo uomo–Dio. Luini cantore della bellezza femminile. Luini cantore della spontanea grazia degli angeli–bambini inseriti nelle finte architetture marmoree.

Luini, che nella cappella Besozzi, affrescata due anni prima di morire, propone un dialogo tra arte sacra e cronaca utilizzando come modella per il martirio di santa Caterina il volto di Bianca Maria di Challant, la donna che subì la decapitazione nel 1526 per aver ucciso colui che l'aveva oltraggiata. Luini infine che – come un grande regista – impara e mette in pratica la lezione di Leonardo sulla fisiognomica e i moti dell'animo umano.