L'Osservatore Romano - 17 febbraio 2010

LE ULTIME INDAGINI SULLA CENA DI EMMAUS DI BRERA

CARAVAGGIO DIETRO CARAVAGGIO

Attraverso nuove tecniche di analisi si è scoperto che nella cena di Emmaus là dove noi oggi vediamo solo un fondo buio filtrava la luce di una finestra aperta che lasciava intravedere un paesaggio.

Caravaggio aveva dipinto un paesaggio - una finestra, un albero e un cielo - alle spalle del Cristo della Cena di Emmaus della pinacoteca milanese di Brera. è questo il sorprendente risultato raggiunto dalle più recenti indagini scientifiche sul famoso quadro che verrà presentato a Roma il 18 febbraio, all'Ambasciata italiana presso la Santa Sede di Palazzo Borromeo. La Cena in Emmaus sarà poi subito trasferita alle Scuderie del Quirinale per la mostra Caravaggio, aperta dal 20 febbraio al 13 giugno per celebrare i 400 anni dalla morte del grande e geniale pittore lombardo.

Davanti a questo quadro, dobbiamo immaginare che là dove noi oggi vediamo solo un fondo buio filtrava la luce di una finestra aperta. Nel suo saggio al catalogo della mostra la sovrintendente di Brera Sandrina Bandera scrive: "Attraverso le riprese radiografiche e riflettografiche emerge come l'artista avesse inizialmente elaborato una scena più naturalistica, nella quale i personaggi venivano illuminati da uno sfondato (una finestra o un porticato) posto alla sinistra, talmente realistico da essere non solo fonte di luce, ma anche vera e propria apertura verso un paesaggio rappresentato dalla fronda di una grande pianta che espande i suoi rami con generosa opulenza".

Questa Cena in Emmaus di Brera, la seconda che Caravaggio dipinse (la prima è del 1601) rappresenta lo spartiacque tra due periodi ben distinti della sua travagliata esistenza e ci aiuta a capire meglio la sua vita e la sua arte. Può dunque essere il punto di vista privilegiato da cui partire per visitare la mostra romana che raccoglie un'ottima selezione, oltre la metà, delle opere di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio dal luogo d'origine della sua famiglia. Il Merisi dipinse la Cena di Brera nell'estate del 1606 mentre si trovava in esilio nel feudo dei Colonna subito dopo quel fatidico 28 maggio in cui aveva ucciso in duello Ranuccio Tommasoni con uno sfortunato colpo di spada alla vena femorale. L'artista era in attesa che il papa gli revocasse la condanna a morte. E poiché la grazia tardava, fu costretto a partire per una lunga fuga durata quattro anni tra Napoli, Malta, la Sicilia, ancora Napoli, Palo e infine Porto Ercole, sull'Argentario, dove morì il 18 luglio del 1610, mentre i messi papali stavano per recapitargli la grazia tanto attesa.

Nella sua fuga Caravaggio lasciò dietro di sé una scia di capolavori. E se già nei quadri giovanili come il Bacchino malato (1593-1594) e il Ragazzo morso da un ramarro (1595-1596) è presente il sentimento della morte, nella Canestra di frutta (1597-1598) esposta al Quirinale, e che in 400 anni non è mai uscita dalla pinacoteca Ambrosiana, il sentimento della caducità delle cose presente nella mela bacata e nella foglia accartocciata si sposa alla bellezza della frutta, circonfusa di luce.

Pittura come lotta tra luce e tenebre. Lotta che avviene tra le pareti buie della propria coscienza. Pareti di carne viva che sanguina del dolore di una lontananza. Nostalgia di Cristo. Presenza che appare e scompare nella stanza buia e senza finestre in cui l'artista costrinse la scena evangelica dei pellegrini nella locanda di Emmaus. Rispetto alla precedente versione della Cena in Emmaus proveniente dalla National Gallery di Londra - che si avrà modo di confrontare a Roma con la Cena milanese - l'artista vuole rappresentare il momento successivo al rivelarsi di Gesù ai discepoli allo spezzare del pane. Cogliendo l'ora più buia in cui, dopo lo stupore e la gioia, i due intuiscono che Gesù, come improvvisamente era apparso loro come pellegrino, altrettanto improvvisamente stava per svanire, fantasma nel buio. Le dita del primo discepolo cercano sulla tavola imbandita e illuminata da una luce radente la mano del Maestro. Ma poi Caravaggio cancella con pennellate di bitume la fonte di quella luce vespertina che inizialmente filtrava dall'apertura alle spalle di Gesù. Apertura che forse rappresentava per lui, come per noi, il ricordo della luce di spalle a Gesù dell'Ultima cena di Leonardo da Vinci, che il pittore aveva senz'altro visto a Milano. Luce rinascimentale di quella "sera" che Caravaggio trasforma in "notte". Notte della nuova età moderna, il Seicento; e "notte oscura dell'anima", la "sua" anima oppressa da cui, per contrasto, emerge la fede nel miracolo assoluto di una pittura fatta di tenebre e luce; luce che dal buio delle tenebre trae il suo senso.

I 25 capolavori esposti alle scuderie del Quirinale rappresentano circa la metà dell'intera produzione di Caravaggio e sono stati selezionati tra le opere "cosiddette certe, su cui nessuno ormai pone questioni" come conferma il curatore, il professore Claudio Strinati. Sei di queste opere posteriori alla Cena in Emmaus appartengono agli anni dell'esilio (1606-1610)e ci aiutano a capire meglio l'ultimo Caravaggio.

Ognuna di queste opere rappresenta una tappa significativa. Innanzitutto la Flagellazione di Napoli (1607-1610) in cui protagonista è la luce che si sprigiona dal corpo in rotazione di Cristo e vince la tragica cattiveria degli aguzzini. Poi l'Amore dormiente (1608), dipinto nel soggiorno maltese e che rappresenta la quiete dell'animo che Caravaggio cercava nell'ordine di Malta, in cui divenne cavaliere il 14 luglio del 1608 ("come un bimbo svezzato è la mia anima", salmo 131,2). Sei mesi dopo però il suo carattere irruente e litigioso lo aveva già tradito e il 6 ottobre è costretto a fuggire dal carcere del forte sant'Angelo alla Valletta. Nel periodo passato tra Malta e Napoli (1608 -1610) dipinge l'Annunciazione per la città francese di Nancy. Il Seppellimento di santa Lucia (1608) ambientato nelle cave di pietra siciliane (le cosiddette latomie) appartiene al periodo passato a Siracusa. Infine l'Adorazione dei pastori (1608-1609), eseguita per i cappuccini di Messina.

Proprio il recente restauro dell'Adorazione dei pastori ha messo in evidenza ombre, guizzi di luci e cromie scintillanti che evocano il pathos narrativo del Caravaggio maturo, il cursus veloce che caratterizza il suo ultimo periodo artistico. Distesa come la Madre di Dio nelle icone bizantine della Natività, o più realisticamente come una donna che ha appena partorito, Maria appare avvolta in un manto rosso regale, mentre il Bambino le sfiora il volto e il collo con la piccola mano. Verso questa Madre di tenerezza convergono Giuseppe e i tre pastori chini in adorazione. Il restauro ha evidenziato i particolari della stalla con le sue travi e la presenza calda e silenziosa del bue e dell'asino che emergono umili dal fondo bruno.

Negli ultimi tre mesi della sua vita Caravaggio esegue il Davide con la testa di Golia (1610) della Galleria Borghese. Nella testa decollata del gigante colpito dal sasso del giovane Davide l'artista ritrae se stesso in un urlo macabro: anche lui era rimasto gravemente ferito a Napoli in un'imboscata. Pittura e biografia in Caravaggio coincidono. Sullo sguscio della spada di Davide lascia scritte in punta di pennello, come incise nell'acciaio, le lettere "H-AS O S", ovvero "H(UMILIT)AS O(CCIDIT) S(UPERBIAM)", l'umiltà uccide la superbia. Humilitas, sigla che san Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, aveva inserito nel suo stemma cardinalizio. A testimonianza di come Caravaggio fosse sensibile alla religiosità controriformistica delle città in cui era vissuto: la Milano di san Carlo, dove il pittore era nato il 29 settembre 1571 e dove aveva ricevuto il battesimo presso la parrocchia di Santo Stefano in Brolo (30 settembre); poi la Roma di san Filippo Neri, (presso il cui oratorio ascoltava volentieri le laudi filippine) e della Confraternita del Santissimo Sacramento a cui si era iscritto e che aveva sede presso il Pantheon.

Infine sarà la Confraternita della Santa Croce di Porto Ercole, all'Argentario, ad accoglierlo morente tra le braccia misericordiose della Chiesa. Accompagnandolo a quell'incontro con Dio a cui per tutta la vita si era preparato con la sua pittura.

La pittura fu la vera preghiera di Caravaggio. Nella sua essenzialità l'Annunciazione di Nancy, forse più di ogni altra sua opera assomiglia a una preghiera Come il Michelangelo della Pietà Rondanini, Caravaggio rinuncia qui a ogni virtuosismo pittorico per dire quel semplice "sì" di Maria all'angelo che è all'origine della salvezza e che il pittore rappresenta semplicemente con l'ombra e la luce. L'angelo non ha volto. Maria non ha volto. O meglio i loro volti nascono dall'ombra luminosa dello Spirito: "Su di te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo" (Luca 1,35). Nella penombra della stanza Caravaggio dipinge le lenzuola e la sedia di Maria che hanno la stessa consistenza della nuvola condensata sul pavimento su cui appoggia l'angelo. Terra e cielo non esistono più. La distanza è colmata e il santo peccatore Caravaggio ha concluso la sua missione.