L'Osservatore Romano - 13 marzo 2015

Le ultime sette parole

I crocifissi di William Congdon in mostra a Milano

Una silenziosa lezione di teologia della croce emerge con la forza di un’eruzione lavica, con l’evidente brutalità di un magma primitivo dalle quattordici immagini esposte in uno dei luoghi più suggestivi della Milano rinascimentale: l’antica Biblioteca Umanistica di Santa Maria dell’Incoronata (1487), un tempo scriptorium degli agostiniani. Qui, dove i monaci magistri sacrae paginae copiavano senza sosta la parola di Dio, i coraggiosi crocifissi a olio su tavola dell’ultimo grande action painter, il newyorkese William Congdon (1913 – 1998) sfidano il passato e sono una sferzata di energia che invita la nostra fede a fare un balzo in avanti. In sintonia con papa Francesco. Crocifissi in uscita. Quattordici stazioni. Verso la contemporaneità delle periferie urbane che Congdon ha incontrato nell’ultima guerra, dove prestò servizio come conduttore di ambulanze (Italia, Germania, campo concentramento Bergen Belsen,). O a Bombay, dove vide gli uomini che morivano lungo le strade e sui marciapiedi nell’indifferenza generale. Quei volti morenti copiati su blocchi d’appunti segnarono per sempre il suo immaginario d’artista.

È questa l’umanità che si riflette nei quattordici crocifissi esposti alla mostra William Congdon. Ecce Homo (12 marzo – 8 aprile), curata da Rodolfo Balzarotti della The William Congdon Foundation e da Giovanni Gazzaneo della Fondazione Crocevia. Metà di queste opere, alcune provenienti da collezioni private, sono esposte al pubblico per la prima volta qui a Milano e vengono a completare la serie di ben 182 crocifissi realizzati da William Congdon tra il 1960 e il 1978 e numerati dall’artista stesso in una sequenza che dice di un percorso spirituale intimo e riservato, così approfondito da diventare una teologia per immagini. Queste quattordici tavole sono altrettante occasioni per confrontarci col tema del crocifisso, immergendoci in quelle notti dell’anima che hanno vissuto santi come Giovanni della Croce e Teresa d’Avila a cui Congdon era molto legato, e di cui leggeva e sottolineava le opere. Come ricorda Rodolfo Balzarotti, il Congdon convertito (Assisi 1959), dopo la liturgia quotidiana, la santa Messa e l’eucarestia, faceva la sua meditazione sulla Parola di Dio dipingendo soggetti evangelici. Una sorte di ruminatio visiva. Ma ben presto si accorse che la sua arte era più lenta e non andava di pari passo con la sua anima. Arte e fede non sempre hanno gli stessi tempi. Lo aiutò molto in questo conflitto interiore la lettura dell’opera di Jacques Maritain L’intuizione creativa con cui trovò una profonda sintonia. E anche un testo di Romano Guardini: Il Signore.

Così abbandonò i temi evangelici per concentrarsi sull’immagine del crocefisso in cui superò il conflitto, la separazione tra arte e vita. Ne ripeteva ogni giorno le fattezze in un corpo a corpo difficile e doloroso. Balzarotti ricorda come spesso distruggesse le opere che non lo soddisfacevano. Congdon iconoclasta di se stesso. Ma mai arrabbiato. Mantenendo quella pace interiore che è dono di chi crede. Croce, artista e crocifisso in lui si identificavano e fondevano in un tutt’uno come scriveva lo stesso Congdon: “Il mio incontro con Cristo mi fa scoprire che il Suo dramma di croce è pure il mio. Il corpo dolente del Cristo è il mio proprio corpo dolente di peccato, corpo infuso del dolore fino a non poter distinguere il corpo dal dolore, quasi fosse il dolore diventato corpo e non corpo diventato dolore: tu rimani spaccato, una ferita aperta, una ferita che non guarisce”.

Ciascuna di queste immagini – di queste “parole non dette” (potremmo chiamarle “le ultime sette parole di Congdon sulla croce”) sono una ferita. E come tutte le ferite hanno nel quadro uno spessore, una terza dimensione data dallo spessore del colore dato con la spatola. Nel Crocifisso n. 24 Cristo è ridotto a un tau in cui il capo si arrovescia verso l’alto in una torsione impossibile verso il Padre. Nel Crocifisso n. 60 le braccia sono come due pezzi legno, il busto come una trave; Cristo è assimilato alla croce; l’immagine si legge come uno scorcio, una figura vista dall’alto, come il Cristo di san Giovanni della Croce ripreso anche da Dalì; la preparazione nera è solo nel contorno, Cristo è piegato come se si tuffasse nel vuoto. Massimo Cacciari fa notare come tutti i Crocifissi di Congdon tendono a cadere. E in effetti tutte le sue opere riflettono questa kenosis, questo abbassamento, questa discesa agli inferi.

Fino al Crocifisso n, 170, uno degli ultimi (da collezione privata), un Cristo “giacomettiano” nero su nero, elegantissimo, quasi illeggibile; una sottile e lunga ferita in rilievo nera e lucida circondata da due ali di nero opaco. Un Cristo senza volto, un’impronta dove la barba e i capelli sono contorno, guscio sindonico che mette in rilievo il vuoto scavato del volto. Tutto ciò in sintonia con quanto scrive Enzo Bianchi in prefazione al catalogo: “come viene detto dalla Bibbia dei Settanta nella traduzione di Isaia 53: L’abbiamo visto senza volto né bellezza. Il capo è sempre reclinato; c’è la testa reclinata e mai il volto. È davvero lo schiavo, il doulos, il “senza volto”, dicevano i greci”.

In questo tendere verso il basso, il buio, il vuoto, nella coscienza del “già e non ancora” della speranza cristiana, Congdon si rivela un grande artista mistico. Negli ultimi vent’anni non dipingerà più crocifissi ma solo la piatta campagna lombarda intorno alla cascina-monastero dove vive presso la comunità benedettina dei santi Pietro e Paolo (Gudo Gambaredo). La croce è ormai dentro di lui e non ha più bisogno di dipingerla. Ritorna al paesaggio, suo primo amore. La pace tra arte e fede per lui è raggiunta.