Luoghi dell'Infinito / Avvenire - aprile 2013

CONCORDANZE

Il Novecento messo in croce

L’arte del secolo breve ha riversato sul Golgota le tragedie e le ansie di un’epoca tormentata ma ancora capace di lasciarsi toccare dal mistero.

Nel Novecento molti grandi artisti hanno subito il fascino universale della croce e si sono confrontati con essa, a volte rischiando di cancellarne l’aspetto glorioso, altre volte riducendola a segno disperante e disperato della morte di Dio (Nietzsche) e dell’uomo stesso.

Il secolo si apre con Golgota (Oslo, 1900) di Eduard Munch, una crocifissione nordica ambientata nello stesso fiordo e sotto lo stesso liquido cielo che fa da sfondo al famoso Urlo dipinto da Munch qualche anno prima. L’artista norvegese rappresenta Cristo in croce come un’esile fiammella che sta per estinguersi, un fuoco fatuo, l’ultimo sole in un mondo di ghiaccio che domina la disperante parabola collettiva di una folla che ricorda il dramma Brandt di Henrik Ibsen. I volti si deformano e assumono la curvatura del grande orizzonte vuoto dove il freddo penetra e paralizza i sensi e la guazza scioglie i colori. I volti sono maschere di cinismo e derisione ma anche di disperazione. Ai piedi di Cristo la folla è un mare fluttuante di alghe agitate da gelide invisibili correnti. Tutti sono accomunati in un grido che sale nella verticale della croce dove è appeso un Cristo larvale e impaurito. Una nuvola sanguigna attraversa il cielo come il presentimento di un sacrificio che si sta compiendo invano in un mondo vuoto e senza senso, dove l’unico personaggio che si interroga è l’uomo con la barba in primo piano.

Trent’anni dopo Pablo Picasso trasforma questo nordico, straziante silenzio, nell’urlo macabro della sua Crocifissione (Parigi, 1930, Museo Nazionale Picasso) ambientata in un’arena dove la Madonna, bianchissima sotto la croce, è pronta a mordere come una mantide dai denti aguzzi una grande figura di torero che rappresenta Atlante (gravato dal peso di una verde meteorite) che minaccia il Figlio che pende come un esangue manichino dalla croce. Madre e Figlio sono uniti e crocifissi al medesimo patibolo in un bianco abbraccio che ricorda il candido marmo di tante Pietà di Michelangelo. Qui però, nel Crocifisso di Picasso, non esiste pietà, ogni personaggio recita se stesso ed è la caricatura crudele della propria solitudine. In alto il sole e la luna, elementi simbolici delle antiche crocifissioni, si trasformano a sinistra in una verde meteorite (che rappresenta anche la tradizionale spugna imbevuta d’aceto) e a destra nel volto misterioso di Maria Maddalena. Gli uomini disseminati nella composizione sono insetti onnivori: soldati-giocolieri che si contendano la veste di Gesù giocandola ai dadi; una figurina rossa sale sulla scala ad inchiodare la mano destra di Cristo; un picador di corrida al posto del tradizionale centurione Longino punta la lancia verso Gesù; in basso infine i corpi senza vita dei due ladroni crocifissi giacciono in un improvvisato ossario.

In Francia, tra le due guerre, in un momento storico in cui si riscopre la devozione al Sacro Cuore e a Cristo Re – Georges Rouault con la sua Crocefissione (acquatinta del 1936) riporta croce e crocifisso in equilibrio tra il senso del dolore e della gloria, rinnovando la profondità religiosa dell’icona, delle vetrate e dei dipinti medioevali. Protagonista torna ad essere il corpo di Cristo e il Suo Volto Santo, effige che rimase miracolosamente impressa sul lino della Veronica (Vera Icona) e sul telo della Sindone e che gli artisti hanno tramandato come un Vangelo figurato, una Buona Notizia per immagini. A destra Maria in blu è chiusa nel suo manto di dolore e accanto a lei il discepolo Giovanni in rosso, nei panni di giocoliere o saltimbanco, figura del circo tanto cara a Rouault. A sinistra Maria Maddalena è china sotto la croce come un angelo adorante. Sullo sfondo il cielo azzurro, arancio e giallo, trasparente come una vetrata, partecipa alla glorificazione di Cristo il cui capo è coronato da un’aureola celeste.

Nello stesso 1936 il pittore ebreo Marc Chagall, scampato in Russia ai pogrom sovietici e in Europa alla persecuzione nazista, riporta il crocifisso nell’ambito biblico della storia della salvezza del popolo ebraico e, con esso – attraverso l’universalità del linguaggio artistico – al centro del destino dell’intera umanità. Nell’opera Cristo e il pittore, l’artista e il suo modello (gouache, 1951, Musei Vaticani) lui, artista ebreo, si rappresenta ai piedi del crocifisso con la tavolozza in mano e intorno gli elementi della cultura ebraica. Cristo mostra il suo volto a Chagall che ne resta atterrito: per gli ebrei vedere Dio in volto significava morire. Eppure lui Moshe Segal, appartenente al rigida comunità dei chassidim, non può che alzare la testa di fronte a quell’Uomo che ha i fianchi cinti dal tallin (lo scialle ebraico di preghiera) e uno sguardo di infinto amore. Chagall partecipa, ci sta, punta il suo pennello verso Cristo come Longino la sua lancia di soldato, lo mette alla prova, misura la sua divinità. E come Longino riconosce commosso, davanti a quello sguardo d’amore, che veramente un uomo così è l’unica risposta al dramma e alla sofferenza del suo popolo. La misericordia di Cristo conquista l’ebreo Chagall che gli dedica la sua arte, la sua tavolozza, i suoi colori. Chagall dipinge come fondale alla croce una tavolozza e una tela aperta e trasforma il Crocifisso nel luogo stesso della presenza di Dio, Arca della Alleanza circondata da due figure antropomorfe, due serafini, l’uno con la Torah e l’altro con lo shofar, il corno che annuncia il giubileo.

Nello 1951 Salvador Dalì, con il Crocifisso di san Giovanni della Croce opera un assoluto rovesciamento di prospettiva rispetto a tutta la cultura novecentesca. Sulle orme di san Giovanni della Croce (l’artista catalano prenderà spunto da un disegno del mistico spagnolo contemporaneo di santa Teresa d’Avila) fa del cielo il nuovo punto di vista da cui guardare a Gesù crocifisso con l’occhio del Padre. Scrive Dalì: «Il Cielo, ecco quello che la mia anima ebbra d’assoluto ha cercato (…) non si trova né in alto né in basso, né a destra né a sinistra, il Cielo è esattamente al centro del petto dell’uomo che possiede la fede».

Da parte sua il pittore statunitense William Congdon giunge al cuore del problema-croce. Nella sua lunga serie di ben 182 crocifissioni, nega e cancella l’immagine tradizionale della croce fino a ritrovarne la gloriosa luminosità: per crucem ad lucem dicevano nel medioevo. E il più moderno dei pittori usa un procedimento simile a quello della teologia apofatica: negando afferma. Così attraverso il metodo della “non conoscenza” caro ai mistici trasforma l’arte in quella nube oscura che velando svela.

Congdon cancella croce e crocifisso e identifica se stesso in quella massa nera e grumosa in cui Cristo muore come seme e risorge nella sua carne di artista. Congdon si identifica totalmente con il segno-croce fino a farlo diventare prolungamento del suo stesso corpo. Scrive: «Il Crocifisso non mi interessa come soggetto religioso da rappresentare ma come dimensione di vita – o morte – che sfocia inevitabilmente nel segno della morte e resurrezione di Cristo. La strada, una qualsiasi, è sempre Cristo: Io sono la Via”!».

Una spatolata di non-colore e la strada che attraversa i campi della Bassa milanese dove l’artista ha vissuto gli ultimi anni della sua vita (dal 1979 al 1998) diventa per lui una ferita aperta nel cuore del mondo. Cristo muore nello stesso corpo del mondo e nel corpo dell’artista. Da quel buco nero risorgere una materia-creazione nuova dominata dal corpo cosmico di Cristo che, come dice san Paolo, è “tutto in tutti” (Colossesi 3,11). Così accade nel Crocifisso n. 64 (olio e cenere su pannello, 70 x 40 cm, Milano, The William G. Congdon Foundation) in cui il seme del capo reclino di Cristo fiorisce dal bianco sudario del Suo corpo.