Jesus n° 06 - giugno 2010

IL MENDICANTE DI LUCE

Si chiude il 13 giugno a Roma una grande mostra su Michelangelo Merisi: una serie di capolavori che, insieme alle recenti ricerche sulla vita del grande artista lombardo, gettano una nuova luce sulla vicenda umana di Caravaggio.

La mostra romana Caravaggio, aperta fino al 13 giugno alle scuderie del Quirinale, integrata con la visita ai principali luoghi dove sono conservate le opere di Caravaggio (a Roma le chiese di Santa Maria del Popolo, San Luigi dei Francesi, Sant'Agostino; poi Napoli, la Sicilia e Malta) ci consente di rivisitare, nel quarto centenario della morte del grande artista lombardo (1610-2010), la sua biografia e il suo lavoro grazie anche alle recenti scoperte sui documenti d'archivio, ai restauri e alle analisi radiografiche e riflettografiche sulle sue opere.
In questi anni il ritrovamento di due documenti d'archivio ha gettato innanzitutto nuova luce sul luogo e le circostanze della sua nascita e della morte. L'atto di battesimo ci rivela come Michelangelo Merisi non sia nato a Caravaggio ma a Milano, avendo ricevuto il battesimo il giorno successivo alla nascita (29 settembre 1571) nella chiesa di Santo Stefano in Brolo, come risulta nel registro parrocchiale: "Adi 30 fu bat(tezzato) Michel angelo f(ilio) de D (omino) Fermo Merixio et d(omina) Lutìa de Oratoribus / compare Fran(cesco) Sessa". La madre si chiamava Lucia Aratori; il padre, Fermo Merisi, lavorava a Milano come sovrintendente agli immobili di Francesco I Sforza: da qui venne all'artista la protezione dei Colonna e dei Doria, nobili famiglie entrambe imparentate con gli Sforza.
Il secondo documento, quello che registra il luogo del decesso di Caravaggio, consiste in una nota rinvenuta in un elenco dei morti dagli archivi parrocchiali della chiesa di Sant'Erasmo a Porto Ercole (tra Orbetello e l'Argentario) che confermerebbe come "nel ospitale di S. Maria Ausiliatrìce morse Michel angelo Merisi da Caravaggio". Sfatando così la leggenda romantica di un Caravaggio agonizzante sulla spiaggia della Feniglia, abbandonato da Dio e dagli uomini, così come voleva il suo primo biografo Giovanni Baglioni, nemico personale di Caravaggio; notizia che venne poi ripresa e perpetuata dal suo biografo ufficiale, Pietro Bellori, che scrisse: "(Morì) malamente come male havea vivuto". Invece Caravaggio morì cristianamente assistito dalla compagnia della Santa Croce, che si occupava degli stranieri infermi e moribondi nel nosocomio locale, che poi diventò sede della Compagnia (poi confraternita) delle Anime del purgatorio di Santa Croce. La stessa compagnia si preoccupò della sua sepoltura e oggi si cerca ancora tra vari scheletri riesumati dal piccolo cimitero di Porto Ercole quale potrebbe essere quello appartenente al grande pittore: elementi rilevanti sono il confronto con il Dna di discendenti dei Caravaggio e lo studio sulle cause della morte, dovuta probabilmente ad avvelenamento da colori.
Negli ultimi giorni della sua esistenza terrena Caravaggio, per poter rientrare a Roma, aspettava la grazia dal Papa, perorata dai suoi potenti amici e protettori, i principi Colonna. L'artista era stato infatti condannato alla pena capitale per avere ucciso il 28 maggio 1606, con un infelice colpo di spada alla vena femorale, un certo Ranuccio Tommassoni da Terni. La causa? Una rissa tra giocatori di pallacorda: "Fattaccio" abbastanza comune nella Roma del tempo per il quale in genere si otteneva il condono; ma non per Caravaggio, che aveva molti nemici.

Gli ultimi quattro anni della sua vita (1606-1610) l'artista li passò dunque in esilio da Roma; prima ospite nel feudo dei Colonna; poi sempre più allontanandosi: Napoli, Malta, Siracusa, Messina, Palermo; dalla Sicilia tornò a Napoli dove nell'ottobre del 1609 venne ferito al volto in un agguato; infine risalì il Tirreno verso Roma ormai certo della grazia, ma venne arrestato dalle guardie pontificie e trasferito nella fortezza laziale di Palo (oggi palazzo Odescalchi), affacciata sul mare; dichiaratosi cavaliere di Malta (ordine dal quale era stato espulso) e pagando una grossa somma in denaro, il pittore riuscì a lasciare la prigione e giunse malato, forse a piedi, a Porto Ercole, nel grossetano, dove attendeva la feluca su cui si era imbarcato con un dono per i Colonna: il quadro di San Giovanni Battista (1610, Roma, Galleria Corsini). Prima di morire ottenne la grazia. Ma era ormai troppo tardi.
Caravaggio era nato il giorno 28 settembre sotto il segno di san Michele, l'arcangelo di luce che con la sua spada sconfigge le tenebre del male e schiaccia Lucifero. Pittore di santi e peccatori, di ombre e di luci, a lui si adattano le parole di Gesù "Non sono venuto per i sani ma per i malati". E ancora: "Io sono la luce vera che viene nel mondo ma gli uomini hanno preferito le tenebre". La pittura di Caravaggio ricerca quella luce cavandola con violenza ("il regno dei cieli è dei violenti") dalla realtà della vita segnata dal sangue, dalla sofferenza, dal buio del peccato. E soprattutto dalla paura della morte.
La paura e il fascino della morte lo ossessionavano fin dalla giovinezza come si può notare in un tema all'apparenza innocuo come Canestra di frutta (1597-1598, Milano, Biblioteca Ambrosiana) dove la mela si baca e le foglie si accartocciano; così, a maggior ragione, emerge prepotente nelle sue tante, drammatiche teste decollate e sanguinanti: Davide con la testa di Golia (1609-1610, Roma, Galleria Borghese), Giuditta che taglia la testa di Oloferne (1597-1600, Roma, Galleria Nazionale d'Arte Antica, Palazzo Barberini), Medusa (1589, Firenze, Galleria degli Uffizi), Decollazione di san Giovanni Battista (1608, La Valletta, oratorio di San Giovanni Battista), San Gennaro mostra le sue reliquie (1607-1610, New York, collezione Morton B. Harris). La morte per Caravaggio è sempre in agguato. Nascosta nella bellezza di una donna avvenente e fatale come Giuditta, l'eroina biblica che decapita Oloferne. O nell'attrazione che un ragazzo prova per una boccia di fiori da cui esce un ramarro velenoso a mordergli il dito: Ragazzo morso da un ramarro (1595-1596, Londra, National Gallery). Infine nell'urlo di angoscia della testa mozzata di Medusa, la bocca storta e gli occhi orridamente strabuzzati sotto la chioma orrenda di serpenti velenosi.

Tenebre e luce. Il guizzo del serpente sotto il piede di Maria e del piccolo Gesù nella Madonna dei Palafrenieri (1605-1606, Roma, Galleria Borghese), una scena per il resto dal tono dolce e familiare in cui la Madonna insegna i primi passi al Figlio sotto l'occhio vigile di nonna Anna. Nella lotta tra il bene e il male Caravaggio cercava la luce della redenzione cristiana. Nel suo soggiorno romano si iscrisse per esempio, alla confraternita del SS. Sacramento che si incontrava al Pantheon. Il suo amore per l'Eucarestia traspare nella Cena in Emmaus, di cui realizzò due versioni (Londra, 1601 e Brera, 1606). Con l'ordine degli oratoriani di San Filippo Neri, che avevano la loro sede nella chiesa in Santa Maria in Vallicella, condivideva la passione per la musica: per loro dipinse una straordinaria Deposizione dalla croce (1600-1604, Roma, Pinacoteca Musei Vaticani).
Nel suo primo soggiorno napoletano fu un "monte di pietà" che gli commissionò la tela Le sette opere di misericordia (1606-1607, Napoli, Pio Monte della misericordia). Caravaggio dimostrava così di essere apprezzato dalle nuove realtà ecclesiali e sociali religiose, molte delle quali uscite dal fervente clima religioso seguito al Concilio di Trento.
Costretto a fuggire anche da Napoli, Caravaggio cercò rifugio nell'antico ordine equestre dei Cavalieri di Malta in cui vedeva incarnato l'ideale del cavaliere cristiano che pone la sua spada al servizio del bene. Ecco allora i ritratti dei due cavalieri di Malta: Ritratto di fra Antonio Martelli (1608-1610, Firenze, Appartamenti Reali, Palazzo Pitti) e Ritratto di Alof di Wignacourt (1608, Parigi, Museo Louvre), suo protettore e Gran Maestro dell'ordine gerosolimitano. Essere accolto dai Cavalieri di Malta significava per Caravaggio compiere una svolta che avrebbe potuto ridare senso alla sua vita, riscattarla quasi attraverso un nuovo battesimo, come evidenziò nella grande tela Decollazione del Battista che volle firmare con il rivolo rosso del sangue che scorre dalla testa mozzata di san Giovanni Battista "f michelang" (è l'unica tela di Caravaggio firmata) e "sanguine virtutem traho", a significare appunto che dal sangue versato del martire sgorga una sorgente nuova di vita.

A riprova degli autentici sentimenti religiosi di Caravaggio, la tela Davide con la testa di Golia nasconde nello sguscio della spada del giovane eroe biblico la sigla H-AS O S attribuita al motto agostiniano Humilitas Occidit Superbiam. La forza della spada si sottomette alla virtù cristiana per eccellenza: l'umiltà. E mentre nel volto di Golia Caravaggio rappresenta il suo stesso volto angosciato e ferito alla fronte dopo l'imboscata subita a Napoli da parte di un Cavaliere di Malta il 24 ottobre 1609, nel volto del giovane eroe Davide (pre-cristiano) l'artista rappresenta una pietà infinita per il nemico abbattuto. Davide è Cristo che sconfigge il male (Satana) ma guarda benevolo al peccatore. E Caravaggio peccatore cercherà sempre quello sguardo di misericordia su di lui negli indimenticabili volti dei suoi angeli; e nel volto stesso del Cristo risorto che incontra l'incredulità di Tommaso e dei due discepoli di Emmaus.
Caravaggio ha realizzato due versioni della Cena in Emmaus, una eseguita prima e l'altra dopo l'omicidio Tommassoni ed è interessante confrontarle, essendo entrambe esposte a Roma. Nella prima Cena in Emmaus (1601, Londra, National Gallery), Cristo è giovane e imberbe come la fede di Caravaggio e la rappresentazione è più chiara, così che le figure proiettano ombre sul muro. Passano cinque anni e nella seconda Cena in Emmaus (1606, Milano, Pinacoteca di Brera), dipinta in esilio nel feudo dei Colonna, il buio è totale e da esso escono prepotentemente le figure illuminate da una luce radente. Se nella prima interpretazione Cristo è ben presente e prevale lo stupore dei due discepoli, nella seconda Cristo sta per congedarsi dai discepoli, ai quali non resta altro che cercare di trattenerlo. Anche Caravaggio vorrebbe trattenere Cristo e lo fa attraverso gli sguardi dolcissimi dell'oste e dell'anziana donna in piedi a servire, che richiamano Abramo e Sara nel celebre episodio dei tre pellegrini al querceto di Mamre (Genesi, 18). La donna molto avanti negli anni assomiglia alla serva di Giuditta e alla sant'Anna della Madonna dei Palafrenieri.
In quest'ultima versione è interessante notare come le recenti indagini riflettografiche abbiano messo in evidenza come alla sinistra, nello spazio buio, Caravaggio avesse in realtà primitivamente previsto una finestra con un albero e un cielo, poi cancellato per rendere più forte il contrasto luce-tenebra, quasi un ultimatum della luce di Cristo che è presente e sta misteriosamente per lasciare i discepoli.
Da Zagarolo e Paliano, feudi dei Colonna, Caravaggio inizia dunque il suo esodo lasciandosi alle spalle una scia di capolavori. A Napoli dipinge la Madonna del Rosario (1607, Vienna, Kunsthistorisches Museum), Davide con la testa di Golia, Le sette opere di misericordia, La flagellazione di Cristo (1610, Napoli, Museo di Capodimonte). A Malta i due Ritratti di cavaliere e la Decollazione del Battista. A Siracusa realizza lo struggente Seppellimento di santa Lucia (1608-1609, Siracusa, Museo nazionale di Palazzo Bellonomo) e la Resurrezione di Lazzaro (1609, Messina, Museo regionale). Tornato a Napoli, dipinge il Martirio di sant'Orsola (1609-1610, Napoli, collezione Banca Intesa), forse l'ultima delle sue opere.
In questi capolavori della maturità Caravaggio, incalzato forse anche dalla fretta, raggiunge uno stile sempre più essenziale ed efficace e inaugura una fase nuova della sua pittura, più espressiva e moderna. Le sue figure emergono dal fondo brunito come dall'imprimitura della tela e sono modellate per piani essenziali con forti contrasti luce-ombra che privilegiano le immagini dei protagonisti in primo piano e riprendono quelle secondarie, annegate nel fondo buio, tratteggiandole con violente sciabolate di luce che ne fanno intuire i contorni.
Caravaggio era angosciato dall'idea di finire decapitato. E dopo essere stato sospettato di complotto contro i cavalieri di Malta e aver subito l'espulsione dall'Ordine, fuggì dalla "Guva", la fossa dell'impenetrabile forte di Sant'Angelo dove era stato rinchiuso. Sbarca in Sicilia, a Siracusa, città dove si trattiene da ottobre a novembre; dal dicembre 1608 fino al giugno del 1609 si trasferisce a Messina; in agosto è a Palermo, da cui ripartirà a settembre per Napoli.
Al periodo siciliano appartiene il drammatico Seppellimento di santa Lucia, il primo quadro realizzato appena sbarcato a Siracusa e ambientato in una delle "latomie" siciliane, evocate sullo sfondo. Si tratta delle cave da cui i Greci ricavavano il marmo per i templi siracusani e che Caravaggio visitò con l'archeologo Vincenzo Mirabella, traendone poi spunto per la tragica ambientazione - da teatro greco, appunto - della sua Sepoltura. Il soggetto e la composizione ricordano sia la grande tela che l'artista aveva appena realizzato a Malta, la Decollazione del Battista, sia la romana Morte della Vergine (1604, Parigi, Museo di Louvre) in cui Caravaggio utilizzò come "modella" per Maria il cadavere gonfio d'acqua di una donna gravida da poco ripescata nel Tevere.

Nella Resurrezione di Lazzaro il pittore riprende il gesto imperioso di Cristo della Vocazione di Matteo (1599-1600, Roma, San Luigi dei francesi) a risvegliare Lazzaro che da tre giorni è nel sepolcro: uno schiaffo di luce soprannaturale e violenta. Qui, come nell'Adorazione dei pastori (1609, Messina, Museo regionale) del periodo messinese, Caravaggio continua a pestare sui tasti di una tavolozza dai toni cupi e abbaglianti, traendone una luce impietosa che sconfigge le tenebre della sua stessa vicenda terrena, ineluttabilmente condannata a morte, ma altrettanto ineluttabilmente salvata dalla presenza in carne e ossa di Cristo. La tela Resurrezione di Lazzaro è un potente esorcismo in cui Cristo, col dito teso (lo stesso dito della Vocazione di Matteo) sconfigge il male nel cadavere-manichino di Lazzaro, che con una mano indica il teschio che lo attrae verso il basso, con l'altra cerca di allontanare la luce che lo "stana" dall'alto per salvarlo. Caravaggio, in pittura, esprimeva grandi verità; ma il suo equilibrio psichico risentiva le conseguenze di quel continuo forzato stato di fuggiasco, tanto che un committente messinese, Niccolò di Giacomo, lapidariamente affermò: "Ha il cervello stravolto".
Arrivato a Napoli esegue il Martirio di sant'Orsola, in cui ritrae sé stesso mentre scosta una tenda-sipario, facendo filtrare sul "palcoscenico" una luce drammatica che evidenzia due attori: la donna martire e il suo carnefice. Allo stesso modo nella Cattura di Cristo (1602, Dublino, National Galley) Caravaggio si era autoritratto mentre da destra alzava una lanterna a illuminare la fosca notte in cui l'uomo tradisce Dio; dall'altro lato ritrae il giovane discepolo Giovanni in fuga, letteralmente "fuori" dal quadro, in preda al terrore. Caravaggio invece resta, testimone, con la luce della sua pittura - la lanterna, appunto - a illuminare il suo stesso volto e quello dei presenti.

Come abbiamo notato nella scritta dipinta nello sguscio della spada nel quadro Davide e Golia e in quella formata dal rivolo di sangue dalla testa di Giovanni Battista della Decollazione di Malta, Caravaggio seminò le sue opere di "segni" e alfabeti che completassero il messaggio della sua pittura. Nel Seicento, epoca in cui trionfa la musica barocca, non potevano mancare nei suoi quadri gli strumenti musicali e persino gli spartiti, riprodotti con estremo, maniacale realismo. Per esempio, nel Riposo durante la fuga in Egitto (1595-1596, Roma, Galleria Pamphilij) l'angelo di spalle esegue sul violino un brano che Giuseppe gli sta mostrando. Si tratta del Cantico dei Cantici musicato dal compositore franco-fiammingo Noel Bauldewijn. Il testo è noto: "Quanto sei bella e quanto sei graziosa, / o amore, piena di delizie! / La tua statura è slanciata come una palma / e i tuoi seni sembrano grappoli". L'improvvisato concerto campestre dunque, intermezzo sereno nella concitata fuga in Egitto, è dedicato a Maria che dorme, la mano abbandonata sul manto, il volto illuminato e fuso con quello del Bambino da una dolcissima luce. Anche qui il pittore-regista illuminando alcuni particolari ne suggerisce una chiave di lettura: la luminosità dell'apparizione divina, l'albeggiare sullo sfondo come in un presepe, l'ombra da cui escono i piedi, le mani e la fronte di Giuseppe, teso come uno "strumento" dalla punta dei piedi alla testa in uno sguardo commosso, mentre regge paziente lo spartito di quella musica divina che l'angelo dedica a Maria.
Di improvvisati concerti è seminata la pittura giovanile di Caravaggio che dimorò, giunto ventenne a Roma, per un periodo a palazzo Madama, presso il cardinale Vincenzo Del Monte, che possedeva una ricca collezione di strumenti musicali e spartiti ed era lui stesso musicista. Nelle due versioni di Concerto (1595, New York, Metropolitan Museum, e San Pietroburgo, Ermitage) Caravaggio arriva addirittura a riprodurre lo stesso sparito (O felici occhi miei di Asrcadelt, compositore fiammingo attivo a Roma dal 1539), in due varianti dello stesso autore. E se nei quadri di Caravaggio tra gli strumenti musicali il liuto è il simbolo stesso dell'epoca (al pari oggi del nostro pianoforte), il violino che l'artista a volte dipinge di squarcio in primo piano rappresenta la vanitas: l'archetto ha la corda spezzata per sottolineare la caducità delle cose.
Tale ricerca e tensione provoca nei santi quella ferita mistica che si rimarginerà solo in cielo. La "ferita d'amore" attraversa l'opera di Caravaggio come una musica silenziosa che "grida" nei colori, nelle luci, nelle espressioni dei protagonisti. In particolare si tocca il culmine nell'estasi e nel martirio. L'amante e l'amato si toccano. Dio sposa l'umanità attraverso la ferita delle stimmate in san Francesco; oppure nello svenimento amoroso della Maddalena; infine trapassando i corpi con la spada o le frecce del carnefice, come nel Martirio di sant'Orsola.

In tutto ciò Caravaggio anticipa l'estetica e la spiritualità barocca: l'intimità del rapporto diretto con il Mistero. Nelle Stimmate di san Francesco (1594-1595, Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art), il santo è disteso sorretto da un angelo ma l'altra metà della composizione è immersa nel buio della notte; sull'orizzonte si intravedono deboli striature di luce, come se dal buio si presagisse un'alba. La stessa posa rovesciata del santo sorretto dall'angelo si ritrova nella solitaria, sensuale Maddalena in estasi (Roma, 1606, collezione privata), in cui la santa cade in un deliquio amoroso, quasi colta da una dolce morte. Non c'è più nessuna luce che viene dall'esterno, dall'orizzonte terreno.

Nella grandi composizioni verticali come la Natività di Palermo, il Martirio di san Matteo (1600-1601, Roma, San Luigi dei Francesi) e Le sette opere di misericordia, Caravaggio fa esplodere la sua "machina" barocca. Nonostante fosse pittore realista, di quel realismo lombardo che detestava i voli, i drappeggi, gli svolazzi e i cieli squarciati da cui discendono angeli e santi, i suoi committenti erano comunque il clero e le confraternite e il clima spirituale quello controriformato della religiosità postridentina. Così, da rivoluzionario della pittura e della "visione", Caravaggio seppe unire la terra al cielo con soluzione di continuità, trascinando ciò che è in alto in basso: così la discesa del Figlio di Dio sull'albero di fico nella prima Conversione di san Paolo (1600, Roma, Collezione Odescalchi) che gli venne rifiutata forse proprio per il realismo. Lo stesso rifiuto ottiene la prima versione di San Matteo e l'angelo (1602, Berlino, Kaiser Friedrich Museum) in cui un simpatico angelo-ragazzo sembra volere forzare la mano all'evangelista in un divertente intreccio di braccia e di mani sulle pagine aperte del Vangelo.
Gli angeli di Caravaggio sono creature pienamente umane che non vengono dal cielo ma dalla terra e che vivono il cielo come uno spazio nuovo, una nuova possibilità "reale" di muoversi in assenza di gravità. Cielo e terra sono un'unica realtà che emerge dal nero fondale del palcoscenico in cui l'artista rappresenta i suoi drammi. Così fa scendere dall'alto i suoi angeli come acrobati appesi a un filo, elementi scenografici che giocano con ali e candidi panneggi creando ruote e girandole. Angeli che si sporgono da un invisbile soppalco a porgere la palma della gloria come nel Martirio di san Matteo. Sullo sfondo, nella penombra, Caravaggio rappresenta sé stesso come un regista che da dietro le quinte, turbato e commosso, osserva che il tutto funzioni, le luci siano al posto giusto, l'angelo scenda prima che la spada affondi nel petto di Matteo e prima che il bambino terrorizzato fugga via. Poi scatta il fermo-immagine, il flash della pittura. Nella stessa Cappella Contarini, che il cardinale vuole pronta per il Giubileo del 1600, Caravaggio replica San Matteo e l'angelo: fa uscire la creatura celeste da una girandola di bianchi panneggi che gettano ombre sul muro della stanza in cui Matteo, appoggiato a un tavolo, sta per scrivere il suo Vangelo. In Le sette opere di misericordia, il divino si rivela ancora nella sua concretezza gettando un'ombra reale sulle mura sbrecciate del vicolo Forcella (vicino alla sede del Pio Monte) dove due angeli abbracciati creano una cornice da cui si affaccia Maria con Gesù come una donna del popolo dalla sua finestra. La mano benedicente dell'angelo è come la bacchetta del direttore d'orchestra che dà il via alla complessa scenografia in cui Caravaggio rappresenta polifonicamente, in contemporaneità, Le sette opere di misericordia: concerto improvvisato nell'ombra di un vicolo napoletano. In questa grande tela, destinata all'altare maggiore del Pio Monte della Misericordia, il volto di Caravaggio è nascosto in quello di un paralitico, in basso a sinistra: così si considerava con grande umiltà l'artista, mendicante di luce.

Era finita per lui, a Napoli, la favola di Narciso (1599, Roma Galleria Nazionale d'Arte Antica, Palazzo Barberini) che si rispecchia nel suo stesso volto. Era finito anche il gioco del suo volto dipinto in miniatura in un riflesso del bicchiere della tela Bacco (1596-1597, Firenze, Galleria degli Uffizi). A 38 anni Caravaggio non ha più tempo da perdere e cerca la verità del suo volto nei volti dei martiri e dei santi. Scioglie l'ingarbugliata matassa della sua esistenza in una pittura sempre più fatta di pennellate filiformi, striature di luce che non lottano più con il buio con violenza ma si distendono, come nella splendida Annunciazione (1608-1610, Nancy, Musée des Beaux-Arts) appena restaurata e che conclude la mostra romana. Opera che è punto d'arrivo del cammino di Caravaggio e preludio a tutta la successiva epoca della migliore pittura barocca.