Blog - 11 novembre 2023

Charles Péguy: L’arazzo di Notre-Dame, la fede è un viaggio nella Grazia

Alfredo Tradigo ha tradotto e curato la pubblicazione di “L’Arazzo di Notre-Dame” di Charles Péguy, opera del 1913. In un pellegrinaggio il compimento della conversione del grande autore francese

Perché ha deciso di tradurre integralmente L’arazzo di Notre Dame e quale interesse ha trovato in questo testo?

Si tratta dell’opera più significativa del percorso umano e spirituale di Charles Péguy, un testo poco tradotto e poco noto in Italia, contrariamente ad altre opere dello scrittore francese. Ma ci sono altri motivi che mi hanno spinto a questa traduzione. L’occasione del 150mo anniversario della sua nascita (1873-1914), avvenuta a Orléans, la città di santa Giovanna d’Arco. L’Arazzo di Notre Dame, che ho tradotto e che è da pochi giorni uscito in libreria, è importante perché si tratta della penultima opera di Péguy, l’opera della sua maturità poetica ed espressiva, scritta due anni prima di morire in combattimento sul fronte franco-tedesco durante la seconda guerra mondiale. Un’autobiografia spirituale che può ricordare per intensità, fatte le debite proporzioni, opere come “Le Confessioni” di sant’Agostino e “La montagna dalle sette balze” di Thomas Merton.

Qual è il contenuto dell’opera?

L’Arazzo è il racconto, in forma poetica, di un viaggio a piedi compiuto da Péguy nel luglio del 1912 dalla cattedrale di Notre Dame di Parigi a quella di Notre Dame di Chartres, pellegrinaggio mariano per eccellenza, fatto per ringraziare la Madonna per la guarigione del figlio Pierre. Quartina per quartina, in novecento versi divisi in cinque capitoli, L’arazzo di Notre Dame conclude il cammino di conversione di Péguy, che dal socialismo militante, abbracciato quando aveva 19 anni, ritrova, attraverso la figura di Maria, il senso cristiano della sua vita personale e della storia di un popolo. Il suo capolavoro, secondo il giudizio autorevole del grande teologo Urs von Balthasar, che così scrive: «Nelle sei grandi poesie di Chartres, che hanno da valere come il vertice dell’arte di Péguy, egli innalza la sua invocazione dal tempo caduto alla presenza del tempo non-caduto, nel santuario di Maria».

Quale contributo può dare il pensiero di Péguy alla cultura contemporanea?

Certamente la critica alla modernità e al relativismo operata da Péguy nei confronti della cultura francese del suo tempo è un giudizio profetico valido anche per il mondo di oggi. Attraverso l’esaltazione del valore del lavoro, testimoniato delle grandi cattedrali del medioevo così come dai piccoli gesti di chi impaglia le sedie con precisione, o lavora il legno, Péguy ci fa riflettere sul significato del lavoro manuale ben fatto, che edifica una società più umana e solidale, fondata sulla Bellezza. Scriveva Péguy: “Ho visto per tutta la mia infanzia impagliare sedie esattamente con lo stesso spirito e con lo stesso cuore, e con la stessa mano, con cui quello stesso popolo aveva scolpito le proprie cattedrali”. La bellezza di una sedia impagliata da sua madre “per campare” (la famiglia era povera, il padre morì quando lui nacque) viene confrontata da Peguy con lo splendore della guglia altissima della cattedrale di Chartres, un miracolo di ingegno, innalzata anche qui da un umile scalpellino, “figlio della nostra gente”.

Il mondo giovanile conosce, apprezza e ama la figura di Peguy?

Sì, certamente, e ne è stata testimonianza la presenza di tanti giovani questa estate alla mostra che il Meeting di Rimini ha dedicato a Péguy. Un altro momento significativo, che si ripete ogni anno, è il pellegrinaggio degli universitari francesi che ripercorrono a piedi il cammino durante la Settimana Santa il percorso di Péguy da Parigi a Chartres, testimonia ancora una volta l’amore di tanti giovani per la figura del grande poeta e scrittore. Giunti a Chartres, durante la Messa celebrata nella cattedrale, gli universitari ascoltano, in un clima di religioso silenzio, la lettura di testi tratti dalle “Cinque preghiere a Notre Dame” contenute nell’Arazzo. Infine, ricordiamo che in Italia sono numerosi i centri culturali intitolati a Charles Péguy, segno tangibile che la sua testimonianza e i suoi scritti hanno ancora molto da dire all’uomo d’oggi.

Qual è l’aspetto più attraente dell’Arazzo?

Nei cinque capitoli di cui è composta l’opera domina il senso del viaggio “on the road”, che con ritmo poetico segna quasi fisicamente, passo dopo passo, le tappe del viaggio. In tre giorni di marcia Péguy, da buon soldato, percorre 75 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno, compiendo una vera e propria “doppia” maratona tra Parigi e Chartres. Un viaggio esteriore, fisico, turistico persino, attraverso la bella regione francese della Beauce, attraversata dalla Loira con le sue anse e i suoi affluenti. Agli occhi del poeta il paesaggio esteriore e quello suo interiore si confondono. Il viaggio, così come emerge dall’Arazzo, è fatto di incontri umani, come quello con una famiglia che lo ospita, o dei gendarmi che lo guardano con sospetto. Un viaggio che è motivo, per lo scrittore, di un profondo cambiamento di prospettiva, alla scoperta di quella fede che per Péguy è “semplice, spontanea” perché dono e frutto della Grazia. Una fede che nel “Portico del mistero della seconda virtù” (la sua opera precedente) Péguy aveva sottolineato essere “più facile” dell’altra rara e preziosa virtù teologale, la speranza, “quella piccola speranza che non sembra niente. Quella piccola bambina speranza. Immortale”.

Come vive Péguy il tema della speranza?

Nel suo racconto poetico, si ferma sulla figura di un vecchio solo e triste davanti al camino. Sembra di vedere il vecchio con la testa tra le mani di un quadro di Van Gogh. Quell’uomo anziano è Péguy stesso, che nonostante i suoi 39 anni si sente vecchio dentro, nell’anima. Ecco allora che quella bambina – la speranza – spinge Péguy, una volta raggiunta la meta, a deporre sulle ginocchia della Vergine di Chartres l’uomo vecchio che è in lui, con tutte le sue incoerenze di peccatore. Péguy non può ricevere i sacramenti perché convive con Charlotte, non credente, madre dei suoi tre adorati figli (il quarto nascerà pochi mesi dopo la tragica morte di Péguy). Contemporaneamente però, a un certo punto della sua vita, Péguy si innamora di una giovane ragazza ebrea, Blanche, sua collaboratrice. Ma proprio a Chartres, davanti alla Vergine Maria, lo scrittore decide di non iniziare un rapporto con lei “per amore al Cristo crocifisso”, come egli stesso sottolinea, rimanendo fedele a Charlotte. E a proposito della sua situazione spirituale, Péguy dichiara a un amico: “Vivo senza sacramenti. È un’impresa folle. Ma godo del dono della grazia, di una sovrabbondanza di grazia inconcepibile. Obbedisco alle indicazioni”. E le indicazioni sono quelle della Chiesa cattolica, a cui esplicitamente Péguy si arrende e aderisce senza se e senza ma.

Cosa significa il riferimento all’immagine dell’Arazzo che caratterizza il titolo dell’opera?

Prima dell’Arazzo di Notre Dame, Péguy aveva scritto “L’Arazzo di santa Genoveffa e di santa Giovanna d’Arco”, la pulzella di Orléans, sua concittadina. Penso che l’immagine poetica dell’Arazzo abbracci un vasto orizzonte e metta insieme cose diverse, come i fili di tanti colori che lo intessono. Visto da dietro, dal rovescio, il disegno di un arazzo appare incomprensibile, come spesso è la vita, ma davanti rivela tutta la sua bellezza e verità. Credo che Péguy amasse questo modo di conoscere, simbolo della vita il cui senso si rivela poco per volta. Nei suoi versi raccolti in quartine e divisi in cinque capitoli, il senso del suo “Arazzo” si dipana.

Quali le caratteristiche del libro da lei curato?

Questa traduzione esce oggi per i tipi della Mimep Docete, originale esperienza editoriale di suore polacche fondata da mons. Enrico Galbiati e don Massimo Astrua a Pessano con Bornago, in provincia di Milano. Ho cercato di rendere più agevole possibile la lettura dei testi poetici dell’Arazzo, arricchendo con note e introduzioni ogni singolo capitolo. Si tratta di un’edizione illustrata, destinata al grande pubblico che non conosce Péguy, quindi di grande formato e arricchita con oltre cento immagini della cattedrale di Chartres. Un’opera da leggere, ma anche da guardare.

Ci sono episodi particolarmente significativi in questo viaggio?

Una sera il poeta trova alloggio, insieme all’amico scrittore Alan Fournier (che lo accompagna nella prima parte del viaggio), presso una famiglia di un villaggio francese. Così come viene descritto da Péguy, l’episodio acquista il sapore di un’intima scena evangelica, quella dei due discepoli di Emmaus. Nel momento in cui la padrona di casa, come sottolinea lo stesso Peguy, benedice la mensa e gli ospiti e spezza il pane i due scrittori si sentono come quei discepoli a cui il Risorto si rivela.

C’è anche un brutto fatto di cronaca su cui Peguy si sofferma…

Sì, e per molte quartine, quasi fosse una delle cose più importanti dell’opera. Si tratta di una lunga preghiera di intercessione per un ragazzo, Réné Bichet, collaboratore di Péguy, morto per un’overdose di morfina. Il poeta intercede per lui presso la Vergine di Chartres con insistenza, lo giustifica e, al di là di ogni moralismo, chiede a Maria di perdonarlo perché “non era certo peggiore di noi, al di là del suo eccesso meritava più di noi di vivere”.

E dal punto di vista del paesaggio, la scena più suggestiva?

Come nella sequenza di un film a campo largo, è certamente il momento in cui Péguy si trova a pochi chilometri da Chartres e descrive, nella prospettiva dei covoni allineati nei campi di grano appena raccolto, il profilo della cattedrale gotica, una delle più antiche e belle d’Europa. La visione delle due guglie all’orizzonte è suggestiva. File di covoni come casseri di antiche navi, e nell’esempio marino il poeta sovrappone e riprende l’immagine iniziale del vascello che salpa sulla Senna, dalla cattedrale di Parigi a quella di Chartres, carico dei peccati del popolo che la Grazia trasforma in oro, l’oro del grano. Qui il lavoro dei campi e il lavoro degli scalpellini si confonde, natura e cultura si incontrano. Qui, in un “fermo immagine” quasi cinematografico, possiamo assistere al fermarsi del tempo, come l’ultimo fotogramma di una pellicola in bianco e nero che porta impresso un verso, una poesia di Péguy, lasciandoci assorti a contemplare il suo canto.

Max Ferrario - Il Sussidiario.net