Informazioni

  • Categoria: Cultura
  • Editore: Ares
  • Data: 2012
  • Acquisto online: Ares

Presentazione

L’esperienza che trapela dalle oltre cento lettere raccolte in questo libro e scritte da padre Aldo Trento dal Paraguay ai suoi amici in Italia trasmette la febbre di vita che arde in quest’uomo semplice e appassionato che, davanti al dolore di tanti fratelli e sorelle raccolti dalle miserie delle favelas di Asunción, non fugge via ma si pone con la faccia e le mani di un Altro.
Il parroco della parrocchia San Rafael e il direttore della Clinica per malati terminali è Lui, Cristo, il RIO SOLE, la luce divina che splende su questa terra ancestrale e benedetta dove il popolo guaraní aveva trovato la sua tierra sin mal nelle antiche reducciones dei gesuiti. Oggi quel popolo vive in condizioni di schiavitù morale e fisica e il sole che splende sul Chaco, un tempo il loro territorio di caccia, si trasforma nell’Altro Sole, l’ostia dell’Eucaristia che splende nell’ostensorio con cui padre Aldo benedice tre volte al giorno i suoi malati.
Le cure mediche ad alto livello, le attenzioni umane, l’ordine e la pulizia fanno il resto; così la Clinica per malati terminali si trasforma per tanti nell’anticamera del Paradiso, mentre nel cortile gli oltre 300 bambini salvati dalla strada giocano, studiano, imparano un lavoro che darà speranza al loro futuro.
«Padre Aldo, credi tu questo?»: è la domanda di Gesù a Marta davanti al cadavere del fratello, una domanda che sento viene posta in ogni istante alla mia libertà. Ed è meraviglioso vivere rispondendo alla realtà: «Sì, Signore, io credo».

L'anticamera del Paradiso
Prefazione di Alfredo Tràdigo

Queste pagine sono la testimonianza di come sia possibile – in uno dei Paesi più belli e più poveri dell’America latina, il Paraguay – riscoprire il senso della propria vita quando ormai tutto sembra perduto. Come in una specie di Antologia di Spoon River1 in versione cristiana, padre Aldo Trento racconta storie che nessuno oserebbe raccontare. Storie e volti di donne e uomini e bambini sfigurati dall’Aids, dai tumori, da ogni genere di malattie. Storie di uomini disperati e di una speranza che si ridesta per loro come un dono inaspettato. O una grazia imprevista.

Uomini e donne raccolti da padre Aldo dal bacino umano di povertà e miseria delle due grandi favelas di Asunción, la capitale del Paraguay, dove tutti chiamano questo sacerdote trentino dalla pelle chiara e dalla voce afona col nome dolcissimo e ancestrale di Pa’í: padre. La prima favela di Asunción si estende a due passi dalla piazza del Governo, sul fianco della collina che degrada verso le acque del rio Paraguay che spesso inonda, riempiendole di fango, le povere baracche affacciate sul fiume, mentre dalla parte opposta, selvaggio e inospitale, si estende il Chaco2. L’altra grande favela di Asunción si trova invece a ridosso della discarica cittadina di Cateura, una montagna di immondizie che si innalza come un’onda maleodorante proprio dietro all’Università, là dove inizia la vita «civile». Le favelas sono luoghi estremi di disagio sociale ma, se le percorri in macchina, accompagnato da padre Aldo (altrimenti sarebbe difficile uscirne incolumi) scopri che qui, come altrove, la gente vive comunque con estrema dignità; e dal fango e dalle lamiere si possono vedere, al mattino presto, uscire bambini e bambine puliti e pettinati, la divisa e la cartella in spalla, la gonna a scacchi o i calzoncini blu come se quei bambini (che al pomeriggio ritrovi malvestiti sugli spartitraffico e ai semafori a vendere frutta e verdura agli automobilisti) stessero andando a un college anglosassone.

Qui nelle favelas padre Aldo è di casa e viene spesso a visitare i suoi «santi», a tenere d’occhio quei bambini abbandonati che prima o poi adotterà, strappandoli alla miseria. Da questi luoghi nascono le storie «estreme» raccontate in questo libro, storie di una speranza che si riaccende come la luce di un accendino nel nero baratro dell’abbandono e della disperazione. E come tanti ex voto le storie si allineano e fioriscono in queste pagine: dietro ciascuna volti, teneri germogli, fiori raccolti prima di appassire, corpi lavati, curati e resi belli. Volti che ormai fanno parte della vita di padre Aldo, sono la sua casa, la sua famiglia. Una famiglia di santi dove «santo» appunto significa «salvato». Oggi sono più di mille gli assistiti che la Casa Divina Provvidenza San Riccardo Pampuri ha accompagnato nell’ultimo viaggio. Molti sono i bambini che, in mancanza di un padre e di una madre, sono stati regolarmente adottati da padre Aldo Trento, un uomo che, attraverso la verginità sacerdotale vissuta come dono e offerta di sé, ha riscoperto la gioia di una inaspettata, fecondissima paternità.

Le storie contenute in questo libro sono storie dure, pesanti, al limite del «raccontabile». Storie che nessun operatore sanitario appunterebbe nella sua agenda professionale e che nessuno scrittore si degnerebbe di raccontare in un romanzo. Eppure sono storie preziose agli occhi di Dio. Preziose come icone. Storie di persone che sono la carne stessa di Dio che soffre. Storie di uomini e donne che dopo una vita disordinata sono stati toccati dalla grazia. E sono rinati. Donne che hanno perdonato agli uomini che le hanno contagiate e hanno deciso di unirsi a loro nel vincolo del matrimonio cristiano. Uomini e donne e bambini che nella Clinica Divina Provvidenza hanno scoperto l’anticamera del Paradiso. Per questo sono «santi». Perché il santo non è chi è senza peccato, ma chi, riconoscendo il proprio peccato, si lascia salvare da un Altro.

Per il nostro mondo occidentale, vuoto e nichilista, è una grande lezione scoprire in queste testimonianze una semplice e pragmatica verità: la via della santità è per tutti. Una lezione che viene da uno dei Paesi più poveri dell’America del Sud. Nella Clinica San Riccardo Pampuri si sperimenta come si possa essere curati con dignità dopo una vita trascorsa nell’abbandono. Padre Aldo scrive ogni mese agli amici in Italia queste lette- re che pubblichiamo e che formano una specie di «calendario dei santi» o di martirologio. Qui, nella Clinica per malati terminali, soprattutto nel reparto dei bambini, «morte e vita si affrontano» ogni giorno in un duello tremendo, così come canta la liturgia pasquale. E, nonostante tutto, paradossalmente, a vincere è la Vita. Dal 2004 a oggi oltre 1.000 persone sono state «rubate» al Male e accompagnate in Paradiso e altre 500 hanno ripreso a vivere. I malati di padre Aldo ripetono spesso le parole che un mendicante disse a madre Teresa di Calcutta che lo aveva raccolto e curato: «Ho vissuto tutta la vita come un animale, ora muoio da re».

La Clinica San Riccardo Pampuri si trova all’interno del complesso della parrocchia di San Rafael che ripete idealmente lo schema delle antiche reducciónes3 gesuitiche di cui in Paraguay (come in Argentina e in Brasile) restano ancora le gloriose rovine, che la foresta sta in parte riconquistando e che padre Aldo visita quando ha tempo per celebrare l’Eucaristia e fare «memoria» dei «santi fondatori», i gesuiti, tra cui il trentino padre Antonio Sepp. La parrocchia di San Rafael sorge in uno dei quartieri di Asunción proprio sul modello di una antica reducción anche se l’edificio, fatto erigere con un pizzico di libertà e fantasia da padre Aldo, assomiglia piuttosto a un castello medioevale. Sugli spalti, in ferro battuto, campeggia nel cielo azzurrissimo la silhouette dell’arcangelo Michele a cavallo che protegge questa «cittadella fortificata» della Divina Provvidenza, zona off limits per il Male, rifugio da ogni povertà fisica e morale. Una nuova «tierra sin mal», secondo il sogno ancestrale degli antichi indios guaraní che videro nei gesuiti i loro liberatori dai paulisti, i mercati di schiavi brasiliani. Oggi i discendenti degli indios guaraní vivono nella foresta urbana di Asunción le nuove forme di povertà e malattie sociali.

La Clinica San Riccardo Pampuri è un luogo che brulica di vita. Le sue finestre si affacciano su un grande cortile da cui salgono argentine le voci dei 300 bambini che frequentano l’asilo e la scuola primaria e secondaria Pa’í Alberto e che ogni giorno vengono nutriti, educati, amati. Il Centro di aiuto alla vita, il poliambulatorio e persino il caffè letterario «Van Gogh» e la pizzeria «O sole mio» rappresentano altrettanti luoghi di accoglienza dal sapore di baita trentina. Aquesti ambienti si sono aggiunte in questi anni le tre casitas per bambini orfani o malati di Aids («Betlemme» 1, 2 e 3), la casa per anziani «Gioacchino e Anna», la sede del Banco dei donatori di sangue, del Banco alimentare e un piccolo cimitero dove padre Aldo seppellisce i morti.

Il cuore pulsante di tutte queste attività è la piccola cappella del Santissimo Sacramento, aperta giorno e notte grazie alla presenza di una guardia armata. Nella cappella è perennemente esposto Gesù eucaristico che padre Aldo ha nominato «il vero parroco» di San Rafael. Lui, Aldo, si considera solo uno strumento, uno che è stato «salvato» anche lui dalla malattia – la depressione – che tanto lo ha fatto soffrire «dentro». Salvato anche lui da Cristo attraverso l’incontro in Italia con il carisma di don Luigi Giussani, un uomo che lo ha abbracciato e gli ha rinnovato una fiducia illimitata, ridestando in lui il desiderio della sua giovinezza: andare in Missione. «Rifai l’esperienza delle antiche reducciónes gesuitiche» gli aveva detto don Giussani e padre Aldo partì, lanciandosi in una «missione impossibile», resa possibile dal miracolo della presenza di Cristo. Quello stesso Cristo che padre Aldo e i sacerdoti suoi collaboratori portano tre volte al giorno nell’ostensorio in solenne processione ai malati, accompagnati dalla cantilena dolcissima delle infermiere: Alabado sea el Santíssimo (sia lodato il Santissimo Sacramento). Il canto è struggente e se lo hai sentito, anche solo una volta, non te lo puoi dimenticare, non lo puoi più strappare dal cuore.

L’appuntamento con la morte può dunque trasformarsi in un appuntamento con la Vita. «Si può vivere così» è la sfida che padre Aldo lancia da queste cronache dal «Nuovo mondo», cronache di straordinaria santità. E come Giovanni Testori in Conversazioni con la morte dialoga con l’ultima nemica, così padre Aldo Trento dialoga in queste lettere con i moribondi, grandi e piccoli, peccatori e innocenti, dando voce alle loro testimonianze. Il luogo più amato da padre Aldo è proprio il reparto dei bambini, i suoi «piccoli santi». Qui un uomo ansioso e depresso come lui ha ritrovato quella pace «dentro» che altrove spesso gli è negata.

«Santi» sono anche tutti coloro – malati, medici, infermieri, personale specializzato e non – che sono passati nelle stanze della Clinica Divina Provvidenza; chi ha vissuto almeno mezz’ora tra le bianche pareti di queste stanze – dove l’orologio è fermo sull’ora del Dolore – non può non riconoscere di avere sperimentato, respirato nell’aria, toccato con mano quella stessa pace che ha conquistato padre Aldo, un uomo che affronta tutte le difficoltà estreme che la vita ogni giorno gli mette davanti agli occhi ripetendo tra sé e sé, come preghiera, una semplice giaculatoria: Yo soy tu que me haces. Io sono tu che mi fai. Un’invocazione imparata dalle labbra di don Luigi Giussani e che padre Aldo sussurra prima di addormentarsi e ripete all’alba, quando riapre gli occhi e subito si inginocchia davanti al Santissimo, deponendo ai piedi del «Padrone di casa» tutte le sue preoccupazioni. L’ex prete ribelle si è fatto mendicante di Cristo perché ha scoperto che Cristo si è fatto mendicante del suo cuore.

Ecco il segreto di padre Aldo, ecco che cosa lo fa vivere con pienezza davanti alla devastazione fisica e morale che incontra ogni giorno: la coscienza di una dipendenza che gli impedisce di farsi prendere dall’inevitabile tristezza. Anche se la vita non fa sconti (e gli occhi di padre Aldo si riempiono spesso di lacrime), la sua è un’esplosione di gioia e di riconoscenza a Dio che «fa» e «rifà» tutti i giorni la vita sua e dei suoi malati. Un paradosso dentro a una realtà di Male. L’impossibile che diventa possibile. I due strumenti attraverso cui si opera all’interno della Clinica sono l’Eucaristia e la medicina. «Cristo è la mia medicina e voi siete la mia cura », afferma un malato. E padre Aldo riconosce che il fine della Clinica San Riccardo Pampuri è «dare dignità umana al dolore e alla morte come dimensione fondamentale della vita».

Tra i molti assisti di padre Aldo incontriamo un padre gesuita, una suora missionaria, un poeta-scrittore, un salesiano. Le storie qui raccolte ci restituiscono lo spaccato di un popolo che vive e soffre oggi in Paraguay; ogni storia è uno schiaffo per il nostro mondo occidentale che ha esorcizzato e allontanato il pensiero della morte e ogni tentativo di risposta positiva ai dubbi e alle incertezze sul «se e quando è lecito staccare la spina». Uno schiaffo salutare che rimette le cose al loro giusto posto. Uno schiaffo di cui abbiamo bisogno, che è una grande testimonianza di fede nella vita. Sul caso Eluana Englaro padre Aldo dà un giudizio netto che coincide con il giudizio di coloro che in Italia sono in prima linea e combattono accanto ai malati, giorno dopo giorno, sul fronte della sofferenza incurabile e terminale. La Clinica San Riccardo Pampuri mostra al nostro sistema sanitario e ai suoi operatori come si debba guardare alla Morte in relazione alla Vita. Insegnamento che ha radici antiche e viene dalla lunga storia e dalla saggezza del popolo guaraní.

La parrocchia di San Rafael edita da alcuni anni un inserto speciale – Observador Semanal – che viene inserito ogni giovedì nel quotidiano nazionale Ultima Hora, distribuito in 20.000 copie in un Paese di quasi sette milioni di abitanti. Questo foglio-inserto si è trasformato in un grande strumento di evangelizzazione. Le autorità locali riconoscono il valore dell’opera di padre Aldo, che è stato insignito del premio di Primo cittadino onorario di Asunción. L’attuale presidente del Paraguay, Federico Franco, ogni lunedì mattina raggiunge di buon’ora San Rafael per recitare le lodi con i sacerdoti, fare colazione con loro, trattenersi con i malati, dimostrando apprezzamento per questa Clinica nata dal niente in una città dove l’ospedale civile assomiglia a un lazzaretto.

Il seme della Clinica dedicata a san Riccardo Pampuri (il santo dei malati) e della parrocchia dedicata all’arcangelo san Raffaele (Colui che guarisce) sta iniziando a dare frutti impensati. Dagli intricati rami della soffocante foresta tropicale, sul ceppo dell’antica fede di questo popolo evangelizzato prima dai francescani e poi dai gesuiti, rinasce il bellissimo, misterioso fiore tropicale del mburucuya, in Italia conosciuto come il fiore della Passione. Fiore dell’Amore di Cristo per l’uomo e che in Paraguay è fiorito grazie alla fede e all’amore di un sacerdote bellunese.

Padre Aldo racconta...
Introduzione dell'autore

«Mors et vita duello conflixere mirando: Dux vitae mortuus regnat vivus»

Così cantiamo ogni anno, nel giorno della Pasqua del Signore: «La morte e la vita si sono battute in un sorprendente duello. Il Signore della vita, morto, regna vivo». Credo che queste parole dicano in modo eloquente la ragione e lo scopo della Clinica per malati terminali intitolata a san Riccardo Pampuri. La prima paziente a cui aprimmo le porte l’1 maggio del 2004 si chiamava Laura, era una ragazza malata, abbandonata, mamma di cinque figli e che da molti mesi non si alzava più dal letto. Era anche il giorno della festa di san Riccardo Pampuri, medico italiano santificato da papa Giovanni Paolo II che dedicò tutta la vita ai malati, inizialmente come laico impegnato nel mondo, e poi come religioso nell’ordine dei Figli di San Giovanni di Dio, più noto in Italia come ordine dei Fatebenefratelli.

Mi avvicinai alla figura di san Riccardo Pampuri attraverso monsignor Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, che era molto devoto a questo santo. Molte volte ho visitato la tomba di san Riccardo Pampuri a Pavia, chiedendogli sempre di darmi un cuore attento e disponibile per coloro che soffrono. E fu grazie alla sua intercessione che nella nostra parrocchia di San Rafael, qui in Paraguay, nacque la Clinica che porta il suo nome. Un regalo della Divina Provvidenza, un gioiello in un mondo che censura la morte e considera i malati come un peso del quale liberarsi il più in fretta possibile. In quel primo anno morirono ben 57 malati: tutti avevano vissuto soli, abbandonati, emarginati; ma tutti morirono come re, portandosi dietro una storia meravigliosa di santità, perché tutti morirono nella pace del Signore. Santo infatti non è colui che ha vinto le novantanove battaglie della vita; santo è chi, magari perdendole tutte, vince l’ultima battaglia, quella contro il male. Questa battaglia si vince quando la libertà umana, riconciliata con Dio, si consegna totalmente alla Sua volontà. Il santo è il peccatore che ritorna al Padre, è l’uomo che accetta la morte e il dolore come una carezza del Padre che, non volendo perdere nessuno dei suoi figli, usa ogni mezzo perché si risveglino, riconoscano il Suo infinito amore e confessino la propria miseria chiedendo perdono.

Per tutti questi amici che sono passati dalla Clinica intitolata a san Riccardo Pampuri e che ci hanno lasciato, la malattia del cancro o dell’AIDS non è stata una disgrazia, bensì l’alba di un giorno pieno di luce, un’aurora piena di speranza, l’inizio di un giorno di sole. Tutti sono morti lasciandosi abbracciare dalla misericordia di Dio, col sorriso della misericordia sulle labbra, quasi a garantirci che erano già nel grembo di Dio.

Per noi che viviamo nella Clinica San Riccardo per malati terminali la morte non è una «brutta sorellastra», ma una sorella bella, la porta che ci conduce verso il sorriso eterno di Dio. Il giorno della morte è il momento nel quale affidiamo il nostro amico o la nostra amica al Signore della vita; è un giorno di festa perché è il trionfo della vita. Il dolore umano ci accompagna, perché siamo umani, ma la certezza gioiosa che Cristo è risorto e vive è la certezza con la quale chiudiamo gli occhi degli amici che se ne vanno. Per questo li salutiamo sempre con i sacramenti e la benedizione e, una volta che l’anima ha abbandonato il fragile corpo (ben pulito e sistemato come quello di una sposa o di uno sposo pronti per le nozze) celebriamo per lui la santa Messa nella cappella della Clinica.

Se colui che è morto è un medicante, solo e abbandonato, il suo funerale sarà ancora più solenne. Portiamo il suo corpo in chiesa dove lo vegliamo; il giorno seguente, dopo la Messa funebre, lo accompagniamo al cimitero e lo seppelliamo affinché riposi nell’attesa della risurrezione finale. Quell’ultimo saluto con la Messa solenne è lo stesso con cui Gesù salutò i suoi amici nel Cenacolo, celebrando con loro l’Eucaristia prima di andare incontro alla morte.

San Francesco d’Assisi chiamava la morte «sorella», e questo sentimento è ciò che viviamo anche noi nella Clinica. Qui si vive con la coscienza di essere figli di Dio che guardano alla morte come all’inevitabile e necessaria condizione per incontrare il Destino per il quale siamo stati fatti: incontrare il volto buono del Padre. Qui si muore con dignità, si muore bene, ricevendo tutti quei doni che la Chiesa stessa regala: la presenza amorosa di medici, infermieri, volontari, sacerdoti; ma soprattutto i sacramenti: «Padre, la mia vita è stata un’immondizia, ma qui sono nell’anticamera del Paradiso».

Un tempo la morte mi spaventava, e ancora oggi mi è difficile accettarla, eppure ora non la guardo più come prima: ora la vedo come il doloroso ma non tragico commiato da tutto ciò che ho di più caro, nella certezza di incontrare il quid: l’unica cosa che il mio cuore, da quando ha l’uso della ragione, ha sempre cercato e desiderato. Arriverà anche per me quell’ora, e mi auguro di ricevere anch’io la grazia di questi fratelli che, accompagnati da me, dai sacerdoti e dagli amici della Casa Divina Provvidenza San Riccardo Pampuri, salutano la vita col sorriso di Dio sulle labbra.

La Casa San Riccardo è realmente l’ultimo sorriso della misericordia di Dio in questo pezzetto di terra benedetta. È un canto alla vita che si congeda per incontrare la Vita. È una luce nelle tenebre di un mondo che, avendo perso il senso della vita, vaga nella disperazione dell’edonismo, cercando inutilmente di sfuggire il dramma della morte che ci sorprenderà sempre sul cammino. Possiamo cercare di metterci d’accordo con lei, come il protagonista del film Il settimo sigillo di Ingmar Bergman; e lei, la morte, con la sua freddezza e il suo cinismo, potrà sempre offrirci il tempo per una partita a scacchi. Ma, alla fine, sarà lei a darci scacco matto. Dalla morte non si può fuggire, si può guardarla con serenità solo con gli occhi della fede che, aprendoci come una porta sull’eternità, ci mostra il volto bellissimo del Mistero di Dio.

Sono passati tanti anni da quel primo di maggio del 2004 e per tutti noi che viviamo questa esperienza è stato commovente vedere come i nostri fratelli moribondi si siano congedati dalla vita, in un mondo che non sopportando la vita censura la morte con la dimenticanza o ponendo fine alla vita stessa con orgoglio e satanica decisione. L’eutanasia, così com’è intesa oggi, non è morire con dignità ma nella prometeica e disperata situazione di chi, non riconoscendo Dio come unico creatore e autore della vita pretende di essere, come Lucifero, quel che nessun uomo potrà mai essere: il giudice ultimo della propria esistenza. La dignità della morte, il morire con dignità coincide con l’ultimo sì, da parte della libertà umana, che riafferma il sì dell’inizio della vita: «Sono qui, Signore, per fare la Tua volontà ». In questa consegna a Lui sta tutta la dignità di chi vive e di chi muore. Ringrazio tutti coloro che ci accompagnano in questo cammino, augurandomi che siano sempre più coscienti della grazia che abbiamo: preparare dei santi che dal cielo proteggano questa nostra terra.

Una nota finale: voglio ringraziare padre Bartomeu Meliá per il suo discorso al Primo Congresso di Medicina Palliativa organizzato dalla nostra Clinica nei primi giorni del giugno 2005 sul tema La morte nella cultura guaranitica (cfr infra, p. 246). La relazione di questo esimio professore, senza dubbio il massimo antropologo del nostro Paese, ci permette di incontrare una cultura ancestrale i cui tratti sono tuttora presenti nel popolo contadino paraguayano. Una cultura nella quale la morte è parte integrante della vita, in quanto conduce definitivamente all’immortalità della vita stessa. I pazienti che ogni giorno salutiamo nella Clinica Casa Divina Provvidenza San Riccardo Pampuri fanno parte di questa cultura guaranitica, una cultura che trova compimento definitivo nell’esperienza cristiana che la maggior parte di loro ha incontrato e vissuto qui nella Clinica San Riccardo. Tornare alle radici dell’identità del popolo paraguagio, recuperare la cultura della Buona Morte, del morire con dignità, con la coscienza che la vita e la morte sono parte dello stesso destino buono dell’uomo, è la sfida più urgente per la nostra società, che sopravvive in modo disperato nell’inutile tentativo di eliminare la morte.

I versi del poeta Rodolfo Dami, deceduto nella nostra Clinica, descrivono in modo commovente la necessità di scoprire ciò che potremmo chiamare il fascino, la bellezza della morte che apre le porte al compimento della speranza, di quella imprescindibile necessità di eternità che solamente l’incontro con Cristo compie definitivamente: «Sentado frente a la luz, / de la inhiesta vela pensativa, / pongo punto final a este libro / y salgo a vagar por el mundo de la noche: / entre fogatas de luciérnagas / voy de regreso a casa. / Sé que alguien me espera / en aquella estrella lejana»
«Seduto di fronte alla luce / della candela pensierosa / metto il punto fine a questo libro / ed esco a vagare per il mondo della notte: / tra falò di lucciole / torno a casa. / So che qualcuno mi aspetta / in quella stella lontana».

Recensioni

FAMIGLIA CRISTIANA

Dove soffia lo Spirito: la forza di padre Aldo

20 gennaio 2013

Carità e azione sono gli ingredienti della vita di padre Aldo Trento, da decenni missionario in Paraguay per seguire i malati terminali di una clinica di Asunción. Oltre cento lettere raccolte dal giornalista di Famiglia Cristiana Alfredo Tradigo per testimoniare come la cultura della vita attecchisca, grazie alla fede di un popolo provato da condizioni di estrema indigenza. Un miracolo che ha un solo autore: Gesù.